Vai al contenuto
Home » News » Una bellissima scoperta

Una bellissima scoperta

in L. Regano (a cura di), Pinuccia Bernardoni. Scolpire Geometrie, Danilo Montanari Editore, Ravenna 2020

Nel 1973 il critico Enrico Crispolti organizza “Volterra ’73”, invitando gli artisti a instaurare relazioni inedite non solo con la città ma anche con le sue componenti produttive, infrastrutturali, soprattutto sociali: cittadini, comitati di quartiere, realtà autogestite sono il motore e il destinatario di un intervento estetico realizzato non più dall’artista ma da un “operatore culturale” o, meglio, da un “provocatore di partecipazione”. Non si tratta della prima iniziativa del genere. Già nel 1962, infatti, Giovanni Carandente aveva invitato a Spoleto 52 artisti protagonisti della scultura moderna del XX secolo, da Alexander Calder a Henry Moore, da Jacques Lipchitz a Ettore Colla, da Lucio Fontana a Leoncillo Leonardi. Come esplicita il titolo della rassegna “Sculture nella città”, le opere non sono concepite per la città ma solo lì installate, spesso spaesate, autoreferenziali, avulse dal contesto. Nel 1962, del resto, i termini partecipazione, coinvolgimento, contestazione sono ancora prematuri. Non così nel 1969, in occasione di “Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana”, a Como, a cura di Luciano Caramel, che, per la novità dell’approccio e il carattere provocatorio di alcuni interventi, suscita vibrate proteste negli enti locali e sulla stampa. Una ricognizione a tutto campo dove non è tanto la tendenza a contare ma la relazione con il tessuto urbano, gli abitanti, l’amministrazione comunale. Se Enrico Baj dipinge al suolo un grande tricolore e distribuisce manifesti con la scritta “Colpo di stato” da appendere al collo, mentre una banda intona marce militari, Grazia Varisco ingombra una via del centro con grandi scatole di cartone che costringono il passante a deviare e raddoppiare il cammino. Spettacolare l’intervento sull’acqua di Dadamaino: oltre un migliaio di piastrine di polistirolo espanso verniciate al fosforo sono disseminate nella darsena, abbandonate al ritmo dell’acqua. Il foto assorbimento del fosforo è graduato in modo che la luminosità sia progressiva. Alle prime reazioni di scherno e delusione segue un vero e proprio saccheggio. Ancora, se Fabro propone al comitato esecutivo della mostra di acquistare, con la somma che gli spetta, un appezzamento di terreno a suo nome, discutendo il carattere effimero degli interventi, l’architetto Ico Parisi ipotizza “contenitori umani”, liberi prototipi di abitazione dove l’uomo assume diverse posizioni all’interno di una sagoma umana intagliata nel legno. Con questi precedenti, Crispolti trova la strada spianata per “Volterra ’73”, la cui caratteristica, dicevamo, è l’attenzione alla realtà produttiva – è la città dell’alabastro – e istituzionale – scuole e ospedale psichiatrico. Anche qui all’insegna dell’interdisciplinarietà e di una prospettiva orizzontale di partecipazione, incurante di movimenti e tendenze. Se ad esempio l’editore romano Beniamino Carucci attacca immagini “dissuasive” sui tabelloni pubblicitari, gli architetti “di animazione” di Napoli rompono con il paradigma razionalista-funzionalista per aprire la progettazione all’imprevisto, al caso, al caos, alla discontinuità. Mentre Riccardo Dalisi lavora con gli anziani della Casa del Popolo di Ponticelli per produrre multipli illimitati, firmati ma non numerati. L’ambito accademico non è immune dal vento di cambiamento che attraversa l’arte e la società, soprattutto quando vi operano artisti intelligenti e lungimiranti. Tra loro Una bellissima scoperta 52 53 c’è lo scultore Quinto Ghermandi di cui Pinuccia Bernardoni è allieva all’Accademia di Belle Arti di Firenze tra il 1970 e il 1974. Un grande docente che “insegnando quello che doveva insegnare ci portava da un’altra parte”: li fà lavorare ad esempio in gruppo per realizzare il calco della loro mano, ma spronandoli a personalizzare i risultati. Ghermandi apre l’Accademia a giovani storici dell’arte impegnati nel contemporaneo come Giovanni Maria Accame, attento e fedele mentore di Pinuccia, ma nello stesso tempo esorta gli studenti a uscire dalle mura di piazza S. Marco per visitare mostre e gallerie di punta come Schema, Zona, il Centro Di, dove è possibile trovare i cataloghi delle mostre internazionali, e il centro di video arte art/tapes/22 pilotato da Maria Gloria Bicocchi. Il ricordo delle mostre di Jannis Kounellis, Dennis Oppenheim e Fluxus, della performance di Wolfgang Laib con il latte, della mostra “Tra rivolta e rivoluzione: immagine e progetto” promossa dall’Ente Bolognese per le Manifestazioni Artistiche, di cui serba gelosamente il ponderoso catalogo, è ancora vivo nei racconti di Pinuccia. Non sorprende allora che, dotata di grande curiosità, sensibilità e spirito di osservazione, scelga come tema di tesi La scultura come intervento nella città. Si reca a Volterra per reperire materiale sulla mostra di Crispolti e nel 1974 vi torna con Accame, non più in veste di studentessa. L’artista Sergio Borghese la coinvolge infatti in una mostra, curata da Accame, in ideale continuità con “Volterra ’73” di cui condivide le problematiche sul rapporto con l’ambiente e le sue componenti fisiche e culturali, in una prospettiva multidisciplinare e partecipata. “Incontri di Volterra 73”, tra il 10 agosto e il 10 settembre 1975, espone infatti al Palazzo dei Priori di Volterra i lavori di Pinuccia Bernardoni, Franco Bertini, Sergio Borghesi, Lorenzo Fontanelli e Gianna Scoino. Nel comunicato della giunta comunale si parla di un lavoro collettivo sull’alabastro, la principale risorsa della città, “visto fuori dagli abituali schemi del suo uso tradizionale”. Gli artisti si rifiutano infatti di utilizzare l’alabastro per progettare oggetti di design, e privilegiano invece del materiale i “significati sociali e culturali”. Per cinque volte, tanti sono gli artisti, la parola “ALABASTRO” è scritta a terra nei modi consentiti dalle proprietà del materiale: in polvere, bianco, con venature colorate, poggiato in vaschette di plexiglas piene di colore, con il contorno delle lettere che formano la parola “ALABASTRO” disegnato con il gessetto bianco. Gli altri lavori esposti da Pinuccia utilizzano la fotografia, il foto-montaggio, il manifesto: documentano, denunciano, provocano, disorientano, in modo asettico e distaccato. Un annuncio funebre, attaccato negli spazi deputati dai dipendenti comunali avverte tra lo sconcerto generale che La Torre di Pisa ha cessato di pendere, mentre, all’interno di teche protette da grate di ferro come quelle in uso presso le edicole, insinua una serie di fotomontaggi: Una cornice per la storia è una grande cornice che inquadra S. Maria del Fiore dalla stessa angolazione da cui, in Attacco a S. Maria del Fiore, un esercito di chiodi piantati a terra è sul punto di aggredire la basilica e il campanile. Pinuccia continuerà a lavorare sulla Torre di Pisa l’anno successivo, il 1976: se la Torre è morta, urge lavorare sulla sua memoria – termine che vale tenere a mente –, non come icona stereotipata ma attraverso gesti che la interpretino, manipolino, desacralizzino. La taglia a strisce, vi copre una sedia, la attacca a un tubetto di dentifricio spremuto, ai pezzi di un puzzle o su un barattolo contorto di birra, la riproduce su un foulard, la evoca attraverso la registrazione del rumore dei passi necessari per percorrerla, in salita e in discesa, mentre sopra il registratore due foto restituiscono l’ingresso e l’uscita alla e dalla torre. Solo così l’osservatore è in grado di ricordare in modo attivo e creativo la Torre, oltre la narcosi prodotta dall’immagine stereotipata. Per prenderne ulteriormente le distanze, Pinuccia serigrafa le foto delle sue manipolazioni e le firma con un timbro. È un lavoro di grande attualità in tempi di bulimia memorialistica. Espone La Torre e i suoi doppi nel 1978 alla galleria 2000 di Bologna, con la presentazione di Alfredo De Paz. “Nella prospettiva che Pinuccia fa emergere con ironica chiarezza, la Torre si pone come feticcio urbano, come qualcosa che ha perso il proprio valore di oggetto culturale-artistico per divenire oggetto di consumo. Così, definitone preliminarmente il carattere, la Torre viene sottoposta, per così dire, a un’intensa cura omeopatica. Non se ne tenta cioè un serioso recupero dalle degradazioni e dai misfatti del consumismo ma al contrario quei caratteri sovrapposti dal consumo e dalla fruizione di massa dell’oggetto vengono accentuati in un “gioco” di moltiplicazione ironica e paradossale… Pinuccia accentua dunque ed esaspera il feticismo consumistico della Torre… Nel mondo reificato, dominato dal trionfo del consumo, l’oggetto-torre diviene oggetto tra gli oggetti… uniformizzato dalla logica dell’identità, dell’equivalenza, dell’interscambiabilità che domina la società e l’ideologia borghesi”. Le numerose e positive recensioni della mostra sottolineano l’aspetto ironico e intelligente del lavoro. Due fatti importanti occorrono nel 1975: Pinuccia insegna per un anno al Liceo artistico di Firenze, incoraggiata dall’artista Ketty La Rocca, e partecipa con un lavoro molto significativo alla mostra “Segno come segno” alla Quadriennale di Roma. Lo stesso segno, una linea, si adatta a supporti diversi che costruiscono una fascia continua lungo l’involucro: la tela supporta una linea a matita, il legno un segno[1]colore rosso cadmio, mentre la stessa linea è incisa su una lastra di zinco, stampata su carta, graffiata su pietra serena, per infilarsi infine come un segno di luce in un pannello di legno. A differenza del Premio Suzzara del 1973, a Roma l’ambiente è coperto da una tela bianca, sorta di velario che lo rende rarefatto. Nel 1976 Pinuccia si trasferisce a Bologna per insegnare all’Accademia di Belle Arti. Vive a palazzo Bentivoglio dove, intorno al grande cortile cinquecentesco, si affacciano sui ballatoi gli studi di tanti artisti: Antonio Violetta e Fabio Mauro, Giovanni Pintori, Maurizio Ligas, Vittorio Mascalchi, Severino Storti Gajani, Maria Grazia Bertacci, il notaio Stame, noto collezionista, e, a piano terra, la galleria Pellegrino, uno spazio meraviglioso di cui diremo. Ma rimane in contatto con gli amici fiorentini e ne segue la parabola creativa e l’attività espositiva. Con Mario Daniele, ad esempio, condivide l’anno successivo una breve ma intensa stagione di mail art. Dal loro carteggio sembra che l’iniziativa sia partita da Daniele che invita Pinuccia a esporre insieme alla galleria Zona di Firenze. Pinuccia risponde positivamente proponendo un rapporto epistolare per scambiarsi “idee progetto”, che potrà divenire esso stesso opera “attraverso la formalizzazione calligrafica, grafica e fotografica della tensione mentale” che si creerà tra di loro. Con un’altra lettera del 16 luglio 1977 Pinuccia annuncia l’invio della documentazione sui lavori “a partecipazione collettiva” realizzati precedentemente sul fiume Arno, visto che l’intervento con Daniele avrà come oggetto l’ambiente di Firenze. La risposta di Daniele è del giorno dopo: d’accordo sulla metodologia di scambio, le comunica di essere alle prese con un percorso di rivisitazione degli spazi rinascimentali, a cominciare dalla Sagrestia Vecchia di Brunelleschi a S. Lorenzo. “Ho vissuto intensamente per un’ora questo spazio, stabilendo un rapporto tra me, la struttura e la luce”, racconta, spiegando poi come da una sensazione di distacco psicologico iniziale, la concentrazione graduale della luce su alcune porzioni murarie, abbia trasformato un intervento esterno in quello “di mio controllo e dominio”. Con un palese errore di datazione, la 54 55 risposta di Pinuccia dell’11 luglio segue in realtà quella di Daniele di 5 giorni dopo. “La tua lettera”, esordice infatti, “mi ha portato a pensare” alla funzione della luce nella storia dell’arte del ’400 e ’500, con particolare riferimento a Brunelleschi e a Michelangelo: se nel primo svolge una “funzione descrittiva dell’ambiente”, nell’altro, con riferimento al neoplatonismo, “la luce è intesa come luce intellettuale”. Pinuccia annuncia di voler percorrere lo spazio della Sagrestia Nuova e di quella Vecchia per vivere il fenomeno descritto da Daniele nella Sagrestia Vecchia e confrontarlo con quello “eventuale” nella Sagrestia Nuova. Una lettera successiva, del 27 luglio, sembra però esulare dal progetto accennato per raccontarne un altro dettato da moventi più psicologici e personali. Confessa infatti al suo interlocutore che il trasferimento a Bologna dunque la necessità di relazionarsi a una nuova struttura architettonica e urbanistica ma anche a diversi colori, luci, odori e suoni, ha “squilibrato il suo sistema percettivo”. Di qui la necessità di ritrovare “una dimensione totale della città” di Firenze. Traccia allora un percorso (dalla stazione alla galleria Zona) e lo intraprende fotografando le targhe delle strade con i nomi di personaggi famosi, o dei mestieri esercitati nella zona, registrando i rumori su nastri magnetici e ritrovando gli odori, quello acre della stazione, quello soffocante del traffico, quello aromatico del caffè, quello grasso dei ristoranti… per annunciare infine entusiasta di aver “ritrovato la dimensione totale di una città”. Nel luglio 1977 Pinuccia realizza il lavoro nella Sagrestia Vecchia: osserva il movimento della luce che entra dal lucernaio e si posa sulle modanature di pietra serena. Scattando una fotografia ogni 3 minuti, nell’arco di 15 minuti registra la velocità della luce in uno spazio-tempo. La corrispondenza tra i due artisti riprende a settembre, anche se, in una lettera non datata ma decisamente estiva, Daniele racconta di trovarsi al mare, affascinato dalla massa d’acqua incontrollabile e in continuo mutamento e dello stupore provato al cospetto della graduale erosione da parte della stessa di un cono di sabbia (accennato da uno schizzo) alto un metro costruito sulla riva. “L’acqua che non ha forma né consistenza riesce a distruggere una forma, di materia definita, azzerandone il senso e la volontà da me preconizzata… due materie diverse, attraverso fenomeni naturali anche tempestosi, si trasformano completandosi”. Il 3 settembre Pinuccia annuncia a Daniele l’invio della registrazione calligrafica e fotografica di alcune impressioni suscitate in lei il 31 agosto dal chiostro di S. Maria Novella, non impressioni romantiche dell’ambiente ma una rilettura dello spazio fisico – “Spazio come comportamento” – che lo trasformi in “materia come materiale” per un riutilizzo con nuovi significati. Le 4 “impressioni”, accompagnate dalle fotografie del fenomeno descritto, diventano un’opera: 1) le finestre della Cappella Pazzi, pur frammentando la visione del chiostro esterno, non ne “mutano lo scandire equilibrato inscrivendolo in una forma geometrica definita”; 2) la luce del sole che colpisce il loggiato inferiore a est del chiostro ripete la scansione delle arcate tra le colonne; 3) “i volumi che si elevano sopra il lato difronte all’entrata sembrano di cartone: mute scenografie in attesa di una nuova rappresentazione”. La risposta di Daniele del 9 settembre reca la cattiva notizia che la manifestazione “Monografie” da Zona è stata interrotta per motivi organizzativi ma esprime l’intenzione di continuare il lavoro epistolare allargandolo ad altri artisti, in vista di una futura pubblicazione. A Bologna Pinuccia riprende la ricerca sul rapporto tra luce, architettura e città. Prendendo a campione i tre luoghi di S. Petronio, S. Stefano e la Montagnola in via Indipendenza, registra fotograficamente come, nel passaggio dalla luce naturale a quella artificiale, “la consistenza di uno spazio fisico fatto di architetture e di cose si traduca in uno spazio fatto di luce e presenze non facilmente identificabili”. Vale precisare che le immagini fotografiche sono ottenute stampando a contatto il negativo in modo che ognuna possa essere inserita nella sequenza cui appartiene. Tra il 21 settembre e il 21 ottobre 1978, la Casa del Mantegna di Mantova ospita la mostra “Mantua Mail 78”, una “esibizione internazionale di mail art” a cura di Romano Peli e Michela Versari. Tantissimi i paesi partecipanti, dall’Argentina, Australia Brasile, alla Cecoslovacchia, Giappone, Germania, Inghilterra, Colombia… Nutrito il drappello italiano formato prevalentemente da giovani. Tra loro, Pinuccia e Mario Daniele. Firenze in vacanza, il lavoro di Pinuccia, sono 20 buste arancioni inviate, per raccomandata, a 20 enti provinciali del turismo delle capitali di ogni regione italiana. A ogni busta è attaccato uno dei 20 frammenti, tutti uguali, ottenuti tagliando due cartoline di Firenze acquistate da Pinuccia. Un biglietto all’interno della busta raccomanda al destinatario di rispedire la busta arancione preaffrancata a Pinuccia presso la galleria Zona di Firenze. L’intento è di ricostruire, tramite la partecipazione dei destinatari, l’immagine di Firenze attraverso i suoi frammenti e di esporre a Zona tutte le buste. Nel dissociarsi “per mancanza di motivazione” e di “spiegazione logica”, e rinviando al mittente la busta con il frammento, l’EPT di Bologna, unico comune a rifiutarsi di partecipare, vi aderisce in realtà pienamente. Disegnare una casa è un lavoro del 1979 esposto solo alla galleria Il Salotto di Como dal 2 dicembre. La sagoma essenziale di una casa è stampata a contatto su carta fotografica. “Una casa è nascosta in un cofanetto. Il cofanetto come dimensione dell’intimità è di specchio. Il cofanetto è il bisogno di segretezza ma la sua memoria ne dilata le immagini in prospettive infinite. La casa si nasconde e si apre al mondo attraverso le sue finestre ed io dalle finestre entro nella casa. Attraverso l’incerto attimo che è la sospensione tra il dentro e il fuori io mi ritrovo. La mia memoria diviene piccoli frammenti di oggetti, Colori dei quali conservo il segreto”: così Maria Cristina Garulli nel testo redatto per la mostra. Su quella sagoma Pinuccia stampa a contatto un testo scritto a mano che racconta il senso del lavoro attraverso parole e frasi – costruire con sagome, poter realizzare, spazio virtuale, dimensione fisica, lo spazio desiderato – che si ripetono e accavallano senza raggiungere mai un senso compiuto. Oppure stampa tre sagome della casa una dentro l’altra come fossero in prospettiva, oppure disegna oggetti che appartengono alla casa – finestre, armadi, bicchieri – come fossero ideogrammi spaesati. Una seconda edizione, più preziosa, è costituita dalle stampe in bianco e nero fotocopiate su carta dorata. Inizia qui una lunga riflessione di Pinuccia sulla memoria personale legata all’infanzia a Bientina; l’estroversione e l’impegno precedenti cedono il passo a una riflessione più intimistica, nel rigore di una ricerca incurante delle mode e segnata da passaggi all’apparenza fortuiti, legati in realtà alle stagioni che li precedono. Memoria di paesaggi con le loro forme, odori e colori, di giochi spensierati con i coetanei ma anche di angosce e fobie evocate e metabolizzate proprio attraverso l’elaborazione artistica. Una stagione che si protrarrà fino alla fine del decennio e che registra due tappe cruciali: la mostra del giugno 1978 alla galleria Unde? a piazza Castello a Torino e quella dell’anno successivo alla galleria del Pellegrino a Bologna. La mostra torinese 56 57 occupa tre stanze con quattro installazioni. La prima evoca un gioco che Pinuccia faceva da bambina a casa dei nonni in campagna quando prendeva una canna, vi posava sopra una piuma e aspettava che la rondine la raccogliesse per portarla nel nido. In galleria, la canna è poggiata in diagonale alla parete: a fianco, due carte veline, una celeste e una bianca, racchiudono una poesia scritta con letraset bianchi che racconta quel gioco, mentre fotografie in sequenza verticale restituiscono in modo estremamente etereo l’immagine della piuma bianca. La traccia fotografica di un tetto che allude al nido chiude la serie in alto, mentre, in basso, la foto della piuma è stampata su carta nera. La seconda installazione origina sempre dal ricordo, ambientato nella campagna dei nonni, delle fosse di terra che segnavano il perimetro dei campi e che in primavera si riempivano di margherite. In una di queste Pinuccia decide un giorno di stendersi, vivendo allo stesso tempo una sensazione di morte legata al seppellimento, e di vita, grazie ai suoni della natura che la circondano, soprattutto il canto di un grillo. Dopo aver steso su una fossa un grande lenzuolo bianco e averlo fotografato, stampa su pellicola la foto della fossa e quella della fossa con il lenzuolo, ricavandone due matrici. Il lavoro in galleria sono le fotocopie delle due matrici su carta lucida, disposte in due file verticali parallele, mentre a terra, un lenzuolo bianco cosparso di erba, sorta di sudario, copre e protegge il canto di un grillo. La terza installazione consiste di 4 foto: tre ombre delle finestre di Palazzo Bentivoglio, dove vive e lavora a Bologna, e la foto della ringhiera posta davanti alla finestra della sua camera da letto a Bientina; ricorda che le automobili che passavano di notte illuminando la ringhiera proiettavano sulla parete un’ombra mostruosa intermittente. Pinuccia esorcizza l’angoscia stampando a contatto sopra l’immagine dell’ombra un testo che ne racconta la storia. Di fronte alle foto a parete, nello spazio, un oggetto di cartone circolare contiene la sagoma ritagliata della ringhiera di Bientina. L’ombra dell’oggetto proiettata sulle foto a parete ricongiunge così la memoria della città natale alla realtà della casa-studio bolognese. Infine, Fobie e altro a specchio elabora nuovamente la memoria di episodi angoscianti legati all’infanzia e alla casa natale. Sette fotografie 50×70 centimetri sono disposte in verticale, 4 su una parete e tre su quella prospicente, e dialogano a specchio. Una grande falena proiettata sul soffitto basso e arcuato della galleria, congiunge le due parti, “svelando nel fantasma della sua immagine l’incombenza psicofisica dell’io narrante”. Partendo dall’alto, due grandi macchie nere alle estremità delle ali della falena fronteggiano due fotografie degli occhi spalancati di Pinuccia, stampati attraverso la solarizzazione, che le guardano, vivendole come gli occhi della falena stessa. Sotto, il cuore impollinato di una viola mammola, fotografata con un obiettivo che lo ingrandisce, lo mostra come la bocca carnosa del fiore, in dialogo con l’immagine della bocca dell’artista, sporca di anilina rossa, anch’essa fotografata con un obbiettivo che ne mostra le caratteristiche carnose. La settima foto, sotto la “bocca” della viola mammola, restituisce l’immagine di un vaso di viole: sono tutte sfocate tranne una, perfettamente identificabile. L’immagine si riflette nello specchio affumicato posto esattamente di fronte, a terra. La Revérie evoca la fobia per le falene che inquieta l’artista sin dall’infanzia, e cerca di spiegarne il senso attraverso associazioni di immagini. Un vaso di viole, ad esempio, era sul camino dei nonni. Pinuccia lo aggirava temendo che da esso potessero sprigionarsi le falene. Arriviamo così all’ultima tappa del nostro percorso, la mostra del 1979 alla galleria Pellegrino a Palazzo Bentivoglio, titolata La strada verso il Sé passa attraverso l’ombra, con la presentazione di Claudio Cerritelli. Tre grandi stanze, con un soffitto a volte alto otto metri, si affacciano sul cortile cinquecentesco. Il filo conduttore della mostra è nuovamente la “rêverie”, nutrita dalla lettura avida dei testi di Gaston Bachelard. Di nuovo, la paura delle ombre e l’inquietudine provocata dalla presenza degli armadi e dei misteri che custodiscono, motiva le installazioni. Nella prima stanza, in penombra, un albero di circa 60 centimetri costruito con filo di ferro e carta velina bianca, poggia su un piano ovale che ruotando lentamente su se stesso muove piccoli pezzi di carta che evocano le foglie. Grazie a un proiettore, l’ombra ingigantita dell’albero, proiettata su una finestra dietro il cui vetro Pinuccia colloca il disegno di un tranquillo salotto borghese, è l’elemento perturbante. La seconda stanza, anch’essa in penombra, è abitata solo da un comodino poggiato in un angolo dal cui cassetto semi aperto emana una luce rosata per il rivestimento in seta, illuminato da una luce posta dietro un vetro anch’esso rosato. All’interno del comodino un registratore propaga suoni di carillon mescolati a quello di una campana, evocativi delle nenie infantili. Si crea così una sinergia tra il movimento ruotante del piccolo albero e il suono nascosto all’interno del comodino. La terza stanza immerge il visitatore in una luce liquida, dal colore indefinito. Piccoli modelli di abiti da bambina in carta velina colorata, di circa 25 centimetri, sostenuti da piccole grucce, sono sospesi su un filo di ferro modellato ad arco e fissato al pavimento. Un proiettore che illumina la struttura genera da un lato la luce colorata, proiettando dall’altro grandi e instabili ombre scure sulla parete che si inseriscono nella sagoma di un armadio disegnato a grafite sulla parete stessa. Siamo così alla vigilia del 1980, quando conosco Pinuccia, all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove sono stata trasferita per insegnare Storia dell’Arte. Si stabilisce subito tra noi un sodalizio di lavoro, amicizia, solidarietà e complicità che continua ancora oggi, a dispetto della distanza. Per lei, in occasione sia della mostra alla galleria G7 nel 1983 sia di quella dell’anno successivo alla galleria Primo Piano di Roma, ho scritto i miei primi testi critici. Le sono molto grata per la fiducia che continua ad accordarmi. Nonostante le interminabili chiacchierate, non abbiamo mai parlato dei lavori degli esordi, così distanti da quello che faceva allora. Sono stati per me una bellissima scoperta sulla quale ho amato riflettere e che desidero condividere con i lettori di questo volume. Su quello che segue, che conosco invece di prima mano, lascio volentieri la parola a chi non ha avuto la fortuna di condividerlo.