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Tra Umanesimo e Calvinismo

pubblicato in : Tra umanesimo e calvinismo, in Sol LeWitt. Between the Lines (a cura di F. Stocchi), catalogo mostra, Fondazione Carriero, Milano, Koenig Books, Londra.

“Uno degli artisti che ammiro veramente è Sol LeWitt. Ha quella meravigliosa linea, quella incredibile tecnica. Anche se tutto il mio lavoro si basa in un certo senso sulla negazione totale di quel lavoro, è l’altra faccia di tutta quella pulizia, eleganza e spirito, che non è mai andata oltre la superficie e che si è al massimo limitata al piano speculativo.  Mi sembra di aver individuato quello che di tanto in tanto rimpiango, il fatto cioè di non andare un po’ oltre e pensare a cosa accadrebbe se tutta quella bellezza ed eleganza si trasmettesse davvero attraverso lo spazio …”.[1] Si stenta a credere che queste parole siano state pronunciate da Gordon Matta-Clark, il grande artista-architetto franco-americano nato nel 1943 e scomparso prematuramente nel 1978.

Perché esordire con il confronto tra due artisti tanto diversi per generazione, formazione e background culturale? Nato nel 1928, LeWitt appartiene alla generazione post-espressionista-astratta e, almeno agli inizi, rifugge caso e improvvisazione, emotività, organicità e antropomorfismo in nome di strutture geometricamente accertate e auto-referenziali. Matta-Clark, invece, è figlio di Robert Sebastian Matta, l’architetto e artista surrealista che più di ogni altro ha contribuito al travaso della vicenda artistica europea in una sintesi originale americana, a metabolizzare l’automatismo psichico surrealista in quello plastico di Jackson Pollock, Mark Rothko e Barnett Newman. Sulle orme paterne Matta-Clark studia architettura alla prestigiosa Cornell University; vive tra Sud America, Stati Uniti ed Europa, ha come “padrino” Marcel Duchamp. Esordisce come artista nella seconda metà degli anni Sessanta, in piena temperie post-minimalista di cui condivide soprattutto il versante processuale di Eva Hesse, Alan Saret – compagno di studi a Cornell – Bruce Nauman, Richard Serra: contro il formalismo modernista instillatogli all’università dal “guru” Colin Rowe, recupera processualità, partecipazione, il trash, lo scarto. Cosa accomuna dunque Sol LeWitt e Matta-Clark? Due elementi sostanzialmente: la relazione tra arte e architettura che entrambi coltivano con esiti diversi se non antitetici, e l’intreccio, in entrambi, tra la cultura umanistica di matrice europea e quella calvinista di stampo statunitense.

Matta-Clark si trasferisce a New York nel ’69, conosce già gli artisti minimalisti, concettuali, land e processuali, per aver partecipato nello stesso anno, in qualità di assistente di Dennis Oppenheim e Robert Smithson, alla mostra Earth Art[2] a Cornell. Condivide la vita bohemien dei giovani artisti che occupano e restaurano i loft abbandonati di Soho e le lotte degli abitanti del quartiere per la salvaguardia dell’identità urbanistica della zona. Mentre collabora all’apertura di spazi alternativi come 98 e 112 Greene St. e il più noto Food. Dal 1973 vive a Wooster Street, nello stesso edificio che ospita la galleria di Paula Cooper: lì LeWitt ha realizzato nel 1968 il primo wall drawing di suo pugno, lì continuerà a esporre con regolarità fino alla fine. È dunque ipotizzabile che Matta-Clark abbia seguito da vicino l’iter dei disegni murali: dal bianco e nero al colore, dalle linee dritte a tutti i tipi di linee, agli archi, cerchi e figure geometriche piane. Non potrà assistere naturalmente a ciò che accadrà a due anni dalla sua scomparsa, quando la “bellezza ed eleganza” degli Isometric Drawings lascerà la superficie per trasmettersi attraverso lo spazio, come da lui auspicato. Wall drawings che, vedremo, trovano la loro ispirazione nell’architettura e nei suoi sistemi di rappresentazione, appresi nel 1955 durante il tirocinio di un anno presso lo studio di Ieoh Ming Pei. Un apprendistato di cui parlerà come poco più di una parentesi e che si rivelerà invece cruciale: non solo per l’impulso progettuale che guiderà l’intero percorso successivo, ma per la scissione tra momento ideativo ed esecutivo su cui si fonderanno i wall drawings, riservando all’artista il progetto e ad altri la realizzazione. “Lavorare in uno studio di architettura, incontrare architetti, conoscerli, ha avuto un grande effetto su di me. Un architetto rimane un artista anche se non va a scavare da solo le fondamenta del suo edificio e a mettere i mattoni uno sull’altro”.[3] Distingue dunque il versante artistico della professione – concepire e progettare – da quello pratico-costruttivo, dove ci si sporcano le mani con malta e mattoni. Agli antipodi dell’architetto Matta-Clark che, da artista, scava con le mani, taglia e cesella con la sega, non concependo alcun divario tra il momento ideativo e quello operativo.

Nel 1960, deciso a fare l’artista, LeWitt lavora come guardiano al MoMA di New York e frequenta, tra gli altri, Dan Flavin, Robert Ryman, Robert Mangold, Eva Hesse, Scott Burton. “Le discussioni vertevano sui nuovi modi di fare arte, sui tentativi di reinventare il processo artistico, di recuperarne le fondamenta, cercando di essere più obiettivi possibile. Il lavoro di Frank Stella e Jasper Johns ci sembrò particolarmente interessante. Il mio pensiero era allora impegnato sul problema della pittura: l’idea della superficie piatta e l’integrità del piano pittorico”.[4] La sconfitta dell’illusionismo in nome di un’astrazione non relazionale ossessiona critici e artisti sin dagli anni Trenta, da Clement Greenberg a Frank Stella, convinti che lì passi lo spartiacque per un’arte autenticamente americana libera dall’influenza europea. “Con l’eccezione di un campo di colore uniforme, qualunque cosa collocata su un rettangolo o su un piano suggerisce qualche cosa che si trova in qualcos’altro, qualcosa con il suo intorno, qualcosa che suggerisce un oggetto o una figura nello spazio”,[5] tuona Donald Judd in “Specific Object”, il manifesto del minimalismo. Non c’è scampo per la pittura, dunque. Alternative? Abbandonare la parete per lo spazio, come faranno tutti, LeWitt compreso, o fare un’opera d’arte “il più bidimensionale possibile”,[6] come annuncia LeWitt nel testo sui wall drawings redatto nel 1970. “Sembra più naturale lavorare direttamente sul muro piuttosto che fare una costruzione, lavorarci sopra e poi collocarla sul muro”,[7] aggiunge. Il testo segue di due anni il primo disegno murale, tracciato leggermente, utilizzando grafite dura in modo che le linee divenissero il più possibile parte integrante della parete, poco più di un’ombra. Infatti, “il problema che sorge quando si utilizzano le pareti è che l’artista è alla mercé dell’architetto”.[8] Disegnando direttamente sul muro, dunque abolendo la dicotomia tra fondo e figura, LeWitt sancisce la possibilità di una pittura o quantomeno di un disegno non illusionistico. C’è una dichiarazione di Matta-Clark sorprendentemente simile: “Perché appendere cose al muro quando il muro stesso è un medium così intrigante? Un semplice taglio o una serie di tagli agiscono come un potente dispositivo capace di ridefinire soluzioni spaziali e componenti strutturali … C’è una certa complessità che origina dall’assumere una situazione altrimenti normale, convenzionale, anonima e ridefinirla, ritraducendola in una stratificazione e molteplice lettura di condizioni passate e presenti. Ogni edificio genera la sua situazione unica”.[9] Per entrambi, dunque, l’arte non è contenuta dall’architettura ma coincide con essa, è alla sua scala; se LeWitt sfiderà l’inerzia dell’involucro con la pittura, Matta-Clark ne compromette da subito l’integrità con i tagli metamorfici che squarciano pareti e planciti aprendo inedite e vertiginose prospettive spaziali e visuali. Le aperture hanno forma geometrica ma, realizzate a mano, esibiscono confini irregolari e slabbrati.

 

 

Un minimalista impaziente

Prima dei wall drawings, sulle orme di Judd, Robert Morris e Carl Andre, LeWitt aveva abbandonato la parete per lo spazio reale. Nel 1965, quando Judd redige il suo manifesto, LeWitt tiene la prima mostra alla Daniels Gallery di New York diretta dall’amico Dan Graham. Dopo la fase delle sculture in legno pieno a parete, protese come periscopi a esplorare lo spazio, come la bellissima Wall Structure (With Stripes) del 1962, LeWitt compie un passo fondamentale: sia che rinuncino alla parete, sia che vi restino ancorate, le strutture da un lato si smaterializzano, riducendosi a mero profilo, dall’altro assumono come modulo privilegiato il cubo, nero o preferibilmente bianco, moltiplicandolo in orizzontale e in verticale. Come spiega nei “Paragraphs on Conceptual Art”, le Modular Structures, invitate nel 1966 alla mostra di consacrazione del minimalismo Primary Structures al Jewish Museum di New York ne sanciscono in realtà il superamento: “Qualunque cosa attiri l’attenzione e l’interesse dell’osservatore sulla componente fisica dell’opera costituisce un ostacolo alla comprensione dell’idea e viene utilizzata come espediente espressivo”.[10] Grappoli di cubi bianchi, diafani e trasparenti poggiano a terra, si arrampicano sulle pareti, pendono dal soffitto e si abbarbicano agli angoli, confermando il carattere non relazionale, anti-antropomorfico della scultura basata sulla proliferazione modulare della matrice cubica. Un esito assolutamente inedito che rimanda all’apprendistato architettonico. Negli stessi “Paragraphs” ragiona infatti: “L’architettura e l’arte tridimensionale sono di natura totalmente opposta. La prima si occupa di creare aree con una funzione specifica. Per non fallire nel suo scopo, l’architettura – che sia o meno un’opera d’arte – deve essere funzionale. L’arte non è funzionale”.[11] Quando dichiara nel 1999 a Martin Friedman “Credo di pensare più all’architettura che alla scultura. Forse penso a essa come a una forma di scultura”,[12] conferma che il suo interesse per l’architettura è di natura prettamente formale, non funzionale ma neppure spaziale. Ben diversa l’attitudine dell’architetto Matta-Clark, la cui accanita ostilità nei confronti del funzionalismo è in nome dei valori spaziali, contro la mortificazione di uno spazio anonimo e indifferenziato, scatolare e standardizzato. “Io non lavoro sull’architettura. Io lavoro sugli edifici. I miei interessi non sono utilitaristici”, conferma. Per aggiungere però: “La questione dell’architettura moderna… ‘international style’, ‘machine age’, ‘revolutionary architecture’, comunque la si voglia chiamare… è questa: queste varie ideologie accettano il funzionalismo meccanico come una sorta di vocabolario visivo intorno al quale fare moralismo sulle necessità dell’uomo. La moralità radicata in tale mentalità progettuale è valida. L’istanza funzionalista è stata assunta per rompere criticamente con l’istrionica spazzatura beaux-arts. È stata valida ai suoi tempi. Ma per quanto ancora? È stata compiuta forse in settanta anni alcuna revisione critica? Questo è il nodo della questione”.[13] Matta-Clark riconosce dunque il ruolo storico giocato dal modernismo contro l’accademia ma mette in guardia contro la degenerazione accademica dello stesso nell’International Style. Di qui l’insofferenza verso gli studi a Cornell, scuola formalista e modernista per eccellenza.[14] La profezia dell’“anarchitettura”, dal nome del gruppo da lui co-fondato nel 1974 a New York, è allora quella di additare, su edifici che il capitalismo destina alla demolizione per motivi speculativi, come dovrebbero essere gli spazi funzionali all’uomo: articolati, complessi, inquietanti. “Non si tratta di applicare idee scultoree all’architettura, è piuttosto fare scultura attraverso l’architettura. Sembra ci sia sempre stata una relazione costante nel mio lavoro tra architettura e scultura e ora una ha preso il posto dell’altra piuttosto che dovere l’una costruire l’altra.”[15] Manipolata, l’architettura perde la sua esclusiva prerogativa funzionale per assumere una valenza plastica e spaziale.

Approfondiamo la dichiarazione di LeWitt: “Credo di pensare più all’architettura che alla scultura …” Serial Project No. 1 (ABCD) del 1966, nel dialogo tra griglia quadrata e sua proiezione tridimensionale a quote differenti, ha le radici nella pianta a scacchiera e nello skyline della metropoli americana. La prima immagine di Manhattan giungendo dall’aeroporto, soprattutto quando al tramonto la luce smaterializza i volumi, non è forse la dilatazione ipertrofica di un’aggregazione modulare? LeWitt ha ragione: l’ispirazione è nell’architettura e nella città ben più che nella scultura, termine del resto depennato dai minimalisti a favore di quello ben più asettico di “struttura” o di “oggetto tridimensionale”. Non solo. Nello stesso anno l’artista pubblica su Arts Magazine gli Ziggurats. In contrapposizione all’architettura International Style, opta per una tipologia presente in un gruppo di edifici al centro di Manhattan previsti dal piano regolatore del 1916 redatto da George Burdett Ford. Una tipologia in mattoni, dal profilo scalare, che offre il vantaggio di destinazioni funzionali diversificate e consente la libera circolazione di aria e luce nelle strade. “Gli Ziggurats hanno un aspetto pesante, stabile, inerte e saldamente ancorato a terra. Non c’è in essi nulla di grazioso o di leggero, come si riscontra invece negli edifici a lastra … I primi edifici a mattoni, tra i più riusciti nel loro genere, sono opachi e semplici”.[16] Se il profilo scalare dello ziggurat è già presente nella mastaba, forma embrionale di piramide, e nei templi maya di Tikal, Uxmal e Chichén Itzá, in tempi vicini a LeWitt è stato adottato da Moshe Safdie per il grappolo di cellule cubiche progettato per l’Expo di Montréal del ’67 e, ben prima, dalla struttura-ossatura della “Maison Dom-Ino”, il prototipo ideato da Le Corbusier nel 1914. Di nuovo, nel leggere l’architettura, LeWitt presta più attenzione alla forma che allo spazio, la legge come “una forma di scultura”. Mentre quando è alle prese con le strutture tridimensionali, guarda all’architettura e alla città.

 

Un outsider on site

Tornando ai wall drawings, la reticenza e soggezione iniziali nei confronti dell’architettura si trasformano nel tempo in confidenza prima, in competizione poi, in aperta sfida, infine. Linee di ogni foggia, dritte, non dritte, incrociate in tutte le possibili combinazioni verticali, orizzontali e diagonali, quindi archi, cerchi e figure geometriche piane si succedono freneticamente, mentre la matita nera lascia il posto a quelle dai colori primari e queste alle miscele di inchiostri colorati.  Gli Isometric Drawings del 1980 rappresentano una vera svolta: sembrano infatti contraddire quanto sin qui detto e fatto contro l’illusionismo, a favore della bidimensionalità della superficie architettonica e pittorica. Cubi, piramidi, parallelepipedi, tronchi di piramide, costituiscono la nuova grammatica del lavoro: come contorno prima, tratteggiati poi, campiti dai colori primari, infine. Un percorso analogo a quello descritto da Matta-Clark a Judith Russi Kirshner: “dalla linea al piano a vari tipi di piani ai volumi a qualcosa oltre il volume, una sorta di “volume dinamico” ed è proprio questo volume dinamico quello che forse mi interessa di più”.[17] Dalla linea di Splitting, un taglio al centro di una casa suburbana, al volume dinamico di Conical Intersect a Parigi o di Bingo a Niagara Falls, New York, dove le sottrazioni operate sugli edifici non sono più bidimensionali, pertinenti alla sola parete ma penetrano lo spazio in profondità sfidandone l’equilibrio statico.

Nella potenza dell’impatto visivo, i fulcri volumetrici di LeWitt derogano all’imperativo fondamentale dei wall drawings, l’essere cioè “un’opera d’arte il più bidimensionale possibile”. Anche se, a ben vedere, adottano la rappresentazione assonometrica che, trasferendo all’infinito il punto di vista dell’osservatore, restituisce senza deformazioni lo spazio dell’oggetto. Adottate nel disegno architettonico, “le proiezioni isometriche consentono di descrivere un oggetto tridimensionale in termini bidimensionali, un problema con cui ha fatto i conti l’arte di tutti i tempi”,[18] confida LeWitt. Soprattutto quella italiana tra il Tre e il Quattrocento, prima della rivoluzione prospettica. “Prima usavo la matita ma poi, non riuscendo a ottenere il nero che volevo con la matita, ho usato l’inchiostro, l’inchiostro nero, e poi un nero ad acqua, e il grigio, e poi volendo il colore, ho usato l’inchiostro colorato. Con un buon numero di strati di inchiostro, il colore penetra nella parete tanto che alla fine prende l’aspetto di un affresco anche se non era quello l’intento iniziale”.[19] Pur frequentando l’Italia dal 1950 ed esponendovi regolarmente dalla fine degli anni Sessanta, proprio nel 1980 LeWitt sceglie di trasferirsi molti mesi l’anno con la famiglia nel nostro paese. Elegge come città Spoleto dove può ammirare gli affreschi di Filippo Lippi nell’abside del Duomo e, a pochi chilometri, quelli di Giotto ad Assisi e di Piero della Francesca ad Arezzo. “Una delle lezioni che ho appreso dai pittori di affreschi del Quattrocento italiano è stato il loro senso della superficie piatta in cui non veniva usata la prospettiva lineare ma un sistema di prospettiva isometrica che appiattiva le forme”.[20] Non più “alla mercé dell’architetto”[21], LeWitt apprende dall’architettura e dai suoi sistemi di rappresentazione a sfidare l’involucro senza violarlo illusionisticamente. Ma per poco.

Complex Forms, Continuous Forms, Asymmetrical Pyramids, fasce, bande, loopy doopy fino agli ultimi Scribbles, ammettono, in un crescendo vertiginoso e festoso, ogni forma e colore mentre i sistemi multipli di rappresentazione includono anche la prospettiva lineare. Una deroga alle premesse? Se nei “Paragraphs on Conceptual Art” ci aveva avvertito che l’arte concettuale non è teoretica né razionale né formale, ma “intuitiva, coinvolta in tutti i tipi di processi mentali”,[22] due condizioni restano irrinunciabili: le forme, le gamme cromatiche e la posizione nello spazio sono decise preventivamente dall’artista e l’opera è realizzata dagli assistenti con fedeltà e scrupolo, seppure con ampi margini di manovra. Questo fa sì che ogni wall drawing, pur fedele allo stesso progetto, sia un originale, e che ogni mostra, anche dopo la sua scomparsa, non sia mai una retrospettiva. “Nel mio lavoro c’è un doppio fuoco: l’idea e il risultato dell’idea sono simbiotici ed è impossibile isolare l’uno dall’altro. Non ho mai pensato che se la cosa fosse esistita solo come idea sarebbe stata una idea completa. Avevo l’idea che il ciclo dovesse essere completo per essere un’opera d’arte”.[23]

Nel tempo, a essere coinvolta non è più una porzione di parete, o una sola parete, ma l’intero spazio: i wall drawings, pur decisi ogni volta on site, non accettano limiti e costrizioni: nel proseguire virtualmente sotto il pavimento e oltre il soffitto, nello scavalcare, ignari di ostacoli e cesure, porte e finestre, costruiscono una architettura dipinta in dialogo con quella esistente; realizzata per il luogo ma nello stesso tempo in dialettica con esso. Il colore, non più nella sola gamma dei primari ma degli inchiostri che si sovrappongono in misteriose e affascinanti miscele, bilancia, secondo la magistrale lezione di Piero della Francesca, la prepotenza del disegno. Le piramidi sfaccettate che, gigantesche, campeggiano sulle pareti, non evocano forse la maestosità delle figure colonnari del maestro di Arezzo?

 

Un iconoclasta realista

“L’idea di usare la totalità dello spazio della galleria, o di qualsiasi architettura, era molto presente per gli artisti italiani. Nessuno degli americani usava l’ambiente in quel modo. Loro si basavano molto di più sull’oggetto. Probabilmente sono stato influenzato dall’approccio italiano … Nel 1968, quando ho iniziato con i wall drawings, dovevo per forza pensare alla parete intera”,[24] spiega LeWitt nell’ultima intervista rilasciata nel 2006. Un’intervista sollecitata da lui, già molto malato, per dichiarare pubblicamente il suo debito nei confronti dell’arte italiana, non tenuta a suo dire nella giusta considerazione negli Stati Uniti.

“La mia esperienza dell’arte italiana mi ha permesso di contemplare l’idea di utilizzare tutto lo spazio, ma ci stavo arrivando a modo mio … Anche prima che ci trasferissimo in Italia ci andavo tutti gli anni per vedere gli affreschi. A New York la tendenza era liberarsi dalla pittura da cavalletto. Ecco prima del cavalletto c’era l’affresco”.[25]  E di straordinari ne aveva visti nella mostra The Great Age of Fresco: Giotto to Pontormo,[26] ospitata al Metropolitan Museum tra settembre e novembre 1968: una spettacolare rassegna di affreschi dipinti tra il XIII e il XV secolo, strappati per salvarli dai danni dell’inondazione di Firenze del 1966. Affreschi ma anche sinopie, l’“idea” dell’affresco, tracciata dal maestro e realizzata poi dagli assistenti di bottega. È curioso osservare come anche per Matta-Clark il passaggio dei tagli metamorfici dalla superficie allo spazio abbia luogo in Italia, a Genova, nel 1973.

Ma l’influenza dell’Italia su LeWitt esula dalla mera assonanza tra wall drawings e affreschi, per coinvolgere comportamenti, punti di vista e attitudini mentali. Quando giunge a Roma nel 1969 per la prima mostra alla galleria L’Attico di Fabio Sargentini, l’esposizione dei dodici cavalli vivi di Jannis Kounellis era appena conclusa e la sua eco aveva già fatto il giro del mondo. “L’idea dei cavalli mi aveva lasciato senza fiato: una delle mostre più belle degli ultimi cinquanta anni. Tuttora credo che sceglierei quella se mi chiedessero qual è stata la più bella… Andrebbe rifatta qui, in certi spazi”,[27] dichiara entusiasta LeWitt. Un suggerimento raccolto da Gavin Brown che li ha esposti nel 2016 nel suo spazio di New York.

“La situazione a New York, soprattutto negli anni Sessanta, era molto angusta, perché tutto era basato sull’ideologia e sulla teoria, soprattutto nel minimalismo… Imperava una specie di ideologia con una forte impronta calvinista… moralistica… A scuola molti di loro avevano studiato filosofia e la loro attitudine era molto francese… Sentivo tutto questo come davvero opprimente. Quando arrivai da Sargentini fui colpito dall’ampiezza del pensiero di una mostra come quella con i cavalli: gli artisti italiani non erano ideologici ma piuttosto sensuali, avevano a che fare… molto più con i sensi che con la mente e questo per me era davvero importante. Non c’entrava col soggetto o lo stile o con un certo tipo di arte ma c’era una specie di energia liberatoria che mi colpì … Lasciare New York fu per me una buona mossa… In Italia trovai una situazione molto più vasta e aperta”.[28] Concorda Kounellis: “Quando si parla della pittura italiana, si parla di una possibile diversità di fronte alla logica ferrea del quadrato. Il nostro lavoro ha messo in crisi il quadrato … Ci sono due possibilità: o avere un’immagine unica o rappresentare una situazione culturale. La definizione unica è idealista, legata al mondo puritano e calvinista”.[29] E, ancora: “il quadrato minimalista ha tradotto l’idea della storia in un dato strettamente metrico”.[30] Ancor più sorprendente deve essere stato per LeWitt apprendere che Kounellis considerava quell’opera un quadro e se stesso un pittore umanista. La dialettica tra fondo e figura, cruccio di modernisti e minimalisti, è rivendicata da Kounellis ma “oltre” il quadro, quando sullo sfondo dello spazio si stagliano figure reali, dai cavalli ai cactus, dal pappagallo ai libri al carbone agli innumerevoli personaggi del suo repertorio linguistico. Con paradosso analogo, alla domanda se si consideri o meno un pittore astratto, così replica LeWitt: “Io la vedo così: se uso linee o colori o una combinazione di linee e colori, è tutto reale perché la linea è una cosa reale, non astratta. Penso che quello che faccio sia molto dentro la realtà e che l’uso di una quantità di linee sia più reale della pittura di un oggetto o di una persona”.[31] Come nei grandi cicli di affreschi, sia che operi all’interno sia all’esterno – come nella Cappella del Barolo a La Morra d’Alba – LeWitt dipinge straordinari racconti visivi i cui protagonisti sono, nel rispetto della cultura iconoclasta cui appartiene, segni astratti, prima mimetizzati con la parete e poi via via sempre più autonomi e tridimensionali. Così si e ci interroga il grande storico dell’arte Enrico Castelnuovo: “senza episodi mitologici o sacri, senza il paesaggio di una Fuga in Egitto, senza la folla variegata di una Fontana della Giovinezza è mai possibile che dopo i tanti mutamenti che hanno subito e vissuto le arti le pareti ci parlino ancora?  È possibile che il nostro occhio sia portato a rinunciare a storie e a personaggi e venga mosso prima di tutto da forme e colori, linee, luci, contrasti, modificazioni dello spazio? È possibile vedere in Mondrian un discendente dei grandi pittori di Delft?” Per rispondere: “timoroso della diacronia malgrado fossi allievo di Roberto Longhi, un tempo credevo di no, ma non avevo riflettuto molto… Avevo torto”.[32] Se i primi wall drawings “discendevano” allora per la loro bidimensionalità dai pittori bizantini, l’impatto con l’Italia ha trasformato LeWitt in seguace dei maestri rinascimentali.

“Quest’idea della prospettiva era davvero qualcosa di molto rivoluzionario che dava profondità all’immagine, motivo per cui parte del Modernismo l’ha rifiutata completamente… nelle mie curve c’è l’illusione di tubi o superfici arrotondate. Dunque l’idea del piano almeno per me non è più così importante… Lavorando sul muro mi liberavo dell’idea che qualsiasi cosa su una superficie piana fosse illusionistica…”.[33]

Gli Scribbles, infatti, l’ultimo ciclo di wall drawings, sono a matita come quelli degli esordi ma, a differenza di allora, inseguono, attraverso l’effetto chiaroscurale generato dall’aggrovigliarsi discontinuo dei segni, una accentuata tridimensionalità illusionistica. Mettendo così in crisi “la logica del quadrato”.

E nello spazio? Come per i wall drawings, le strutture alternano l’austerità delle Modular Structures alla sensualità delle Non-geometric Forms in plexiglas degli anni Novanta, dai colori sgargianti e caramellosi. La novità delle Concrete Block Structures del 1982 è l’assunzione di un modulo “ready made” come il mattone di cemento. Se nel 1993 ci aveva avvertito che “un architetto rimane un artista anche se non va … a mettere i ‘mattoni uno sull’altro’”,[34] in questo prolifico ciclo LeWitt mette proprio “i mattoni uno sull’altro” in tutte le possibili combinazioni: orizzontali e verticali, in foggia di torri, colonne, gradinate, piramidi positive, negative e irregolari, progressioni irregolari, muri singoli o a più lati, dritti o  curvi, ad angolo o intersecantesi, paesaggi urbani con skyline segmentati, grattacieli… Nell’adottare un materiale architettonico per eccellenza, nell’evocare lo skyline frastagliato degli Ziggurats, le Concrete Block Structures potrebbero essere architetture se, orbe di spazio, non fossero prima di tutto dei monumenti. Come il Black Form (Dedicated to the Missing Jews), sobrio e silente, realizzato per Münster nel 1987, vandalizzato e costretto a emigrare ad Amburgo.

[1]       Judith Russi Kirshner, “Non-Uments”, Artforum, vol. 24, n. 8, ottobre 1985, riedito in Gordon Matta-Clark, catalogo della mostra, IVAM Centre Julio Gonzalez, Valencia, 3 dicembre 1992 – 31 gennaio 1993, pp. 365-368.

 

[2]       Earth Art (Cornell University, Andrew Dickson White Museum of Art, 11 febbraio – 16 marzo 1969), Ithaca, New York, Andrew Dickson White Museum of Art, Cornell University, 1970.

 

[3]       Andrea Miller-Keller, “Excerpts from a Correspondence 1981–1983”, in Sol LeWitt: Wall Drawings 1968–1984, catalogo della mostra, Stedelijk Museum, Amsterdam; Van Abbemuseum, Eindhoven; Wadsworth Atheneum, Hartford CT, 1984; trad. it. “Stralci da una corrispondenza”, in Sol LeWitt. Testi critici, a cura di A. Zevi, Roma, I libri di AEIUO, 1994, p. 112.

 

[4]       Andrew Wilson, “Sol LeWitt Interviewed”, Art Monthly, n. 164, marzo 1993, pp. 3-9; trad. it. “Intervista a Sol LeWitt”, in Sol LeWitt. Testi critici, op. cit., p. 122.

 

[5]       Donald Judd, “Specific Objects”, Arts Yearbook, n. 8, 1986, pp.181-189; riedito in D. Judd, Complete writings 1975–1986, Van Abbemuseum, Eindhoven 1987, p. 117.

 

[6]       Sol LeWitt, “Wall Drawings”, Arts Magazine, vol. 44, n. 6, aprile 1970; trad. it. “I disegni murali (Wall Drawings)”, in Sol LeWitt. Testi critici, op. cit., p. 89.

 

[7]       Ibid.

 

[8]       Ibid.

 

[9]       Gordon Matta-Clark, in Gloria Moure (a cura di), Gordon Matta-Clark Works and Collected Writings, Ediciones Poligrafa, Barcellona, 2006, p. 252.

 

[10]      Sol LeWitt, “Paragraphs on Conceptual Art”, Artforum, vol. 5, n. 10, giugno 1967, pp. 79-83; trad. it. “Paragrafi sull’arte concettuale”, in Sol LeWitt. Testi critici, op. cit., p. 80.

 

[11]      Sol LeWitt, “Paragrafi sull’arte concettuale”, in Sol LeWitt. Testi critici, op. cit., p. 79.

 

[12]      Martin Friedman, “Construction Sights”, in Sol LeWitt: A Retrospective, catalogo della mostra, San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco, 19 febbraio – 30 maggio 2000, p. 54.

 

[13]      Bozza dell’intervista tra Donald Wall e Gordon Matta-Clark pubblicata poi come Donald Wall, “Gordon Matta-Clark’s Building Dissections”, Arts Magazine, maggio 1976, pp. 74-79, riedito in C. Diserens (a cura di), Gordon Matta-Clark, Londra, Phaidon, 2003, pp. 181-186.

 

[14]      Cfr. Alexander Caragonne, The Texas Rangers: Notes from an Architectural Underground, Cambridge, MIT Press, 1995.

 

[15]      Gordon Matta-Clark, catalogo della mostra, IVAM Centre Julio Gonzalez, Valencia, op. cit., p. 376.

 

[16]      Sol LeWitt “Ziggurats”, Arts Magazine, vol. 41, n. 1, novembre 1966, pp. 24-25.

 

[17]      Gordon Matta-Clark, catalogo della mostra, IVAM Centre Julio Gonzalez, Valencia, op. cit., pp. 366.

 

[18]      Andrea Miller-Keller, “Stralci da una corrispondenza”, op. cit., p. 112.

 

[19]      Adachiara Zevi, “In dialogo con Sol LeWitt”, in A. Zevi (a cura di), L’Italia nei Wall Drawings di Sol LeWitt, catalogo della mostra, MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, Napoli, 14 dicembre 2012 – 1 aprile 2013, p. 51.

 

[20]      Andrew Wilson, “Intervista a Sol LeWitt”, op. cit., p. 121.

 

[21]      Sol LeWitt, “I disegni murali (Wall Drawings)”, op. cit., p. 89.

 

[22]      Sol LeWitt, “Paragrafi sull’arte concettuale”, op. cit., p. 76.

 

[23]      Andrew Wilson, “Intervista a Sol LeWitt”, op. cit., p. 125.

 

[24]      Adachiara Zevi, “In dialogo con Sol LeWitt”, op. cit., p. 54.

 

[25]      Ibid.

 

[26]      The Great Age of Fresco: Giotto to Pontormo: An Exhibition of Mural Paintings and Monumental Drawings (Metropolitan Museum of Art, 28 settembre – 19 novembre 1968), New York-Firenze, Metropolitan Museum of Art-Edizioni Il Fiorino, 1968.

 

[27]      Adachiara Zevi, “In dialogo con Sol LeWitt”, op. cit., p. 50.

 

[28]      Adachiara Zevi, “In dialogo con Sol LeWitt”, op. cit., p. 59.

 

[29]      Jannis Kounellis, “Intervista con Germano Celant”, in G. Celant (a cura di), Jannis Kounellis, catalogo della mostra, Musei Comunali, Sale d’Arte Contemporanea, Rimini, luglio – settembre 1983, Milano, Mazzotta, 1983, p. 30.

 

[30]      Ibid.

 

[31]      Adachiara Zevi, “In dialogo con Sol LeWitt”, op. cit., p. 57.

 

[32]      Enrico Castelnuovo, discorso tenuto in occasione della presentazione del volume di A. Zevi, L’Italia nei Wall Drawings di Sol LeWitt presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, aprile 2013.

 

[33]      Adachiara Zevi, “In dialogo con Sol LeWitt”, op. cit., p. 61.

 

[34]      Andrea Miller-Keller, “Stralci da una corrispondenza”, op. cit., p. 112.