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Quale memoriale?

Intervento letto nella seduta solenne del Consiglio comunale di Bologna il 25 gennaio 2016 e pubblicato su “La Rassegna mensile d’Israel”, vol. LXXXI, n. 2-3, maggio-dicembre 2015
Il Parco Storico di Monte Sole, il Museo-Monumento al Deportato Politico e Razziale di Carpi, il campo di transito di Fossoli, il memoriale della strage nella stazione di Bologna, quello alle vittime di Ustica, il Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah a Ferrara, il Memoriale alla Shoah di Bologna, e quello dedicato alla storia a lieto fine dei ragazzi di Villa Emma, in procinto di essere progettato a Nonantola: nessuna regione d’Italia può vantare un ventaglio così ampio e variegato di realizzazioni dedicate alla storia e alla memoria delle tragedie occorse nel XX secolo. Lo spettro altrettanto vasto dei linguaggi artistici e architettonici espressi dalle opere consente di interrogarci sul ruolo svolto dall’arte e dall’architettura nei processi di rammemorazione.

Il Parco Storico di Monte Sole, istituito nel 1989, può definirsi un “monumento come territorio”: è un parco polifunzionale dove la memoria del passato si coniuga con un impegno fortemente orientato sul presente, sulla formazione dei giovani alla cultura della pace, contro il razzismo e la xenofobia.

La sorte del campo di Fossoli che, dalla costruzione nel 1942 fino all’abbandono nel 1970, ha assistito a un avvicendarsi di destinazioni, è ancora incerta: l’esito negativo del concorso internazionale indetto nel 1988 dal Comune di Carpi, ha compromesso la possibilità di una soluzione complessiva organica. Si è proceduto invece per interventi parziali, lasciando il resto in un preoccupante degrado.

Tra i memoriali eretti a ricordo delle vittime del terrorismo mi soffermo su quello, a mio avviso straordinario, dedicato alla strage di Ustica. Realizzato nel 2007 dall’artista francese Christian Boltansky, ricorda l’attentato all’aereo dell’Itàvia del 1980, dove 81 civili persero la vita. Il “museo per la memoria di Ustica” non è sul sito del trauma: la strage ha avuto luogo a chilometri di distanza e in un non-luogo tra il cielo e il fondo del mare. Ha sede in uno spazio industriale anonimo come gli ex Magazzini dell’ATC, completamente inventato come opera d’arte totale intorno a un oggetto-reperto che è il vero sito del trauma: il relitto dell’aereo, composto a sua volta a posteriori e in un altro luogo con i 2500 frammenti rinvenuti nel fondo del mare. È accessibile solo a distanza ravvicinata, circuendolo lungo il passaggio costruito come parte essenziale della scenografia memoriale. Nessuna immagine, nessun reperto rivelano l’identità delle vittime. La loro presenza aleggia grazie alle voci, che non sono però le loro: difficilmente distinguibili se non a distanza ravvicinatissima, porgendo l’orecchio agli specchi neri che le emettono e che cingono il relitto del velivolo; tanti quante furono le vittime. Mentre i reperti, anch’essi invisibili, sono raccolti entro sarcofagi neri. Di forte impatto visivo ed emotivo, il memoriale di Boltansky ci tiene in uno stato di sospensione e disorientamento, vietando ogni immedesimazione con le vittime e con i loro oggetti.

Una grande sobrietà informa il Museo-Monumento di Carpi, progettato dal gruppo milanese BBPR e inaugurato nel 1973. Ludovico di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers hanno pagato la loro militanza antifascista con l’esilio, il carcere e la deportazione. Anche dopo la morte di Banfi nel 1945, di Rogers nel 1969 e di Peressutti nel 1976, i progetti hanno continuato a essere firmati collettivamente. Protagonisti del razionalismo architettonico, i BBPR hanno creduto fermamente nella forza etica e profetica dell’architettura e nel binomio modernità-memoria, come attestano i memoriali da loro progettati, da quello nel cimitero Monumentale di Milano del 1946 a quello nel campo di Gusen del 1967, da quello a Ravensbruck del 1982 a quello all’ex deportato a Sesto S. Giovanni del 1998, opere essenziali, asciutte, aliene da accenti celebrativi e retorici. Il Museo di Carpi esprime, nell’architettura non meno che nell’allestimento museale, una politica della memoria che, come attesta la dedica, accomuna ma nello stesso tempo distingue la deportazione politica da quella razziale. Per la prima volta a quest’ultima, inglobata precedentemente nell’alveo di quella politica, viene riconosciuta una identità, dunque una storia e una memoria autonome. Con gli anni Novanta si assiste a una nuova a-simmetria, a un nuovo sbilanciamento: da comprimaria, la deportazione razziale assurge a protagonista mentre a entrare nel cono d’ombra è ora la deportazione politica, come prova l’odissea del memoriale italiano ad Auschwitz, realizzato per volontà dell’ANED, altro capolavoro dei BBPR, colpevolmente smantellato dalle autorità polacche e ora in procinto di raggiungere Firenze dove sarà per fortuna reinstallato; il pretesto è l’inadeguatezza alle norme museali, la realtà è il suo palese contenuto politico.

Con il nuovo Memoriale alla Shoah, anche Bologna si mette al passo con i tempi. Il doppio muro di ferro alto 10 metri, progettato dal gruppo romano Set Architects, che evoca nella partizione modulare quella di una baracca del campo di sterminio di Buchenwald, s’incunea prepotentemente tra i due setti progettati da Ricardo Bofill sul piazzale monumentale retrostante la stazione, nuovo accesso per i treni ad Alta Velocità. La necessità di un nuovo memoriale dedicato esclusivamente alla Shoah, in un panorama già così ricco di attestati alla memoria di tutte le vittime e la sua posizione, in un luogo come la stazione, così dolorosamente simbolico per Bologna ma forse non altrettanto per la deportazione ebraica, desta qualche perplessità. Perplessità che, lungi dal porre in discussione la qualità artistica dell’opera, premiata, tra gli altri, dall’autore dello straordinario memoriale di Berlino, nascono da una preoccupazione che esprimo attraverso le parole di Claudio Magris:

Non basta condannare e aborrire. Occorre capire come e perché la Shoah ha potuto aver luogo. Anche la Shoah esige la comprensione storica e la storia, come sappiamo, non è né giustiziera né giustificatrice, bensì è — o dovrebbe essere — intelligenza delle cose. Ma con ciò si pone una contraddizione, in quanto la Shoah si è trasformata da storia criminosa a evento metafisico, a male assoluto, e rifiuta di essere compresa, superata in quel giudizio storico che è, diceva Croce, «oltre il rogo» e dunque più sereno che furente.[1]

La stessa preoccupazione, a ben vedere, che accompagna da 16 anni il Giorno della Memoria.

Trovo illuminante il saggio di Elena Loewenthal Contro il giorno della memoria, un saggio acuto, provocatorio, sferzante, che scuote dal torpore che avvolge spesso questo Giorno, pure così importante, così faticosamente conquistato, così irrinunciabile, ma di cui si è perso forse il senso iniziale: ricordare ma per riflettere sulle nostre responsabilità, sulle responsabilità dell’Europa intera nei confronti dello sterminio di 10 milioni di esseri umani, sui silenzi, le complicità, l’indifferenza che lo hanno reso possibile. Un problema di storia, dunque, prima ancora che di memoria.

Concepito e nato per ricordare l’orrore che l’Europa ha visto e annidato negli anni Quaranta del secolo scorso – ragiona Loewenthal – il Giorno della Memoria è diventato ben presto una specie di (postumo) atto di omaggio agli ebrei sterminati. Una ricorrenza non introspettiva, bensì transitiva […] Ma da quando in qua la storia appartiene a chi ci muore dentro senza lasciare altra traccia se non una voluta di fumo da un camino altissimo? La storia è di chi la fa, di chi la vede, di chi c’è e viene dopo chi c’era. Non di chi non c’è più per via di quella storia […] La memoria deve servire a tutt’altro. A educare nella direzione opposta. A divulgare il male per tenersene lontani. A riconoscere quella storia come propria. Italiana. Altro che ebraica […] La memoria della Shoah è di tutti gli altri fuorché degli ebrei.

Occorre, suggerisce sempre l’autrice, mettersi nei panni dei soldati russi che entrarono ad Auschwitz il 27 gennaio 1945. Guardare al campo e alla storia che racconta da quella prospettiva: provare di fronte a quella scoperta lo sgomento di chi aprì i cancelli e si trovò davanti il pianeta Auschwitz.

La messe di iniziative che ingorga allora i giorni intorno al 27 gennaio è prova del successo dell’iniziativa, della sua buona salute? Certamente no per Loewenthal che ha deciso di declinare ogni invito. E neppure per Bidussa che così ragiona:

Nella monumentalizzazione della storia e dunque nella sua trasformazione da strumento a esposizione retorica risiede la crisi del Giorno della Memoria nell’epoca del suo ‘trionfo’. Proprio perché questo trionfo non avviene con la crescita di un sapere critico ma con la ripetizione di una procedura, con l’affermazione di un ‘rituale’.

Qualche alternativa? «Il silenzio. Non l’affanno di voci, parole, immagini», è la soluzione drastica di E. Loewenthal. Un silenzio da non confondere con il nulla.

Lo stesso silenzio, forse, la stessa afasia, invocata da storici, filosofi, artisti e architetti contro una frenesia memorialistica che porta all’inflazione di monumenti, memoriali e musei, in una rincorsa-competizione tra memorie e tra vittime. A che scopo? Tentare, inutilmente, di rappresentare, di mostrare ciò che non si può vedere e che nessuno ha visto, neppure gli stessi morti di Auschwitz: così ragiona lo psicanalista francese Gérard Wajcman nel suo testo fondamentale, L’object du siècle ( Lagrasse, Verdier, 1998). Qual è, s’interroga, l’oggetto di un secolo che «ha inventato la distruzione senza rovina»? L’assenza, quell’invisibile che è il «cuore assoluto di questo secolo moderno» e che coincide con il baratro della Shoah. Come rendere visibile l’assenza, come affermare una negazione? Solo l’arte, il cui compito è quello di mostrare, è in grado di «far vedere ciò che non è rappresentabile né a parole né in immagini». Una grande sfida, che solo gli artisti tedeschi, chiamati a commemorare le vittime di crimini da loro stessi commessi, potevano trovare il coraggio di raccogliere. Se il desiderio di distinguersi dalla generazione dei padri li porta a trasformare le loro città in cantieri della memoria, l’impulso a dimenticare per costruire una identità nazionale aliena da sensi di colpa, li spinge alla rimozione. E di quest’ultima i “contro-monumenti” sono la fedele rappresentazione.

Così definiti dallo storico americano James Young pensando al lavoro dell’artista tedesco Jochen Gerz, i “contro-monumenti” traducono in arte la radicalità del pensiero di Wajcman: prevedono infatti, nella stessa concezione, la loro sparizione.

Nel 1986 Gerz realizza insieme alla moglie Esther Shalev l’opera che lo ha reso famoso: una colonna di piombo alta dodici metri, collocata alla periferia di Amburgo abitata prevalentemente da immigrati, che si abbassa progressivamente fino a scomparire. Grazie alle 70.000 firme e scritte dei cittadini sulla sua duttile superficie, la colonna sprofonda nel giro di sette anni. Il Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza – per la pace e i diritti umani, questo il titolo dell’opera, rivoluziona l’identità del monumento. Già il titolo dichiara trattarsi di un monumento “per” e “contro”, che invita all’azione e non alla semplice commemorazione. Nello sparire materialmente, trasforma gli spettatori del monumento alla memoria in memoria del monumento. Una memoria che, proprio perchéconfiscata al monumento di pietra, diventa la memoria viva dello spettatore. È proprio la sua firma, cioè la sua testimonianza, a provocarne la sparizione fisica. Lo spettatore diviene in tal modo co-autore, complice dell’artista nella realizzazione dell’opera. Firme ma anche insulti, svastiche, frasi antisemite e xenofobe: non solo da parte di fascisti e razzisti ma anche da chi non sopporta l’“indifferenza” di quel monumento, il suo non esprimere emozioni, non consolare né riconciliare; il suo esigere provocatoriamente una presa di posizione e un’assunzione di responsabilità. Il monumento diviene così uno “specchio sociale” che riflette le attitudini e i sentimenti della popolazione, oltre un formale e deferente rispetto.

Il “contro-monumento” di Gerz, sostiene Wajcman, crea materialmente un ossimoro: è un monumento vivente. Il che è il contrario del monumento […]. Quello che vediamo è che non c’è niente da vedere. Vediamo la rimozione della memoria. Ciò significa che il monumento di Gerz […] Rende i soggetti dei portatori di memoria e fa di ciascuno un monumento. [2]

Se il difetto principale dei monumenti, soprattutto quando enfaticamente rappresentativi, è di espropriare lo spettatore della possibilità di partecipare originalmente al processo di elaborazione della memoria, nel “contro-monumento” di Gerz il testimone passa dal monumento alle persone vive.

I musei, i monumenti e i memoriali presenti in Emilia-Romagna abbracciano una vasta gamma di espressioni artistiche, dalla rappresentazione mimetica alla sobrietà astratta, dal rispetto topico dei siti del trauma alla loro invenzione scenografica, fino alla ipotesi di monumento che abbraccia un intero paesaggio. Alcuni prevedono la partecipazione attiva dello spettatore, altri lo tengono a distanza, alcuni lavorano sul presente, sulla formazione e la prevenzione, altri si preoccupano unicamente della conservazione filologica del passato. Per dirla con il filosofo Tzvetan Todorov, anche gli artisti distinguono tra la memoria “letterale”, che considera l’avvenimento passato insormontabile e intransitivo e la memoria “esemplare” che permette invece di utilizzare il passato in vista del presente, di approfittare delle lezioni, delle ingiustizie subite, per combattere quelle che ci sono oggi. È il presente, insiste Todorov, che «fa del passato l’uso che vuole»[3]. Personalmente, prediligendo la sobrietà sulla ridondanza, l’afasia sull’eloquenza, la sottrazione sull’enfasi e il coinvolgimento dello spettatore sulla delega, ritengo che l’approdo di Gerz costituisca l’esito più radicale del processo di messa in discussione del monumento. Come procedere oltre questo “grado zero”? Continuare a far scomparire monumenti, come ha fatto del resto lo stesso Gerz in altre opere o altri artisti tedeschi come Horst Hoheisel? Perché quella radicalità potesse abbandonare l’alveo del gesto unico, eroico, titanico, divenire metodo per proliferare e diffondersi, occorreva compiere un passo indietro sulla strada dell’invisibilità del monumento. È quanto compiuto da un altro artista tedesco, Gunter Demnig, con il progetto degli Stolpersteine, le “pietre d’inciampo”.

Semplici sampietrini, della misura standard di 10 x 10 cm, recano incisi, sulla superficie superiore di ottone lucente, pochi dati identificativi, anticipati dalla scritta «qui abitava»: nome e cognome del deportato, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte in un campo di sterminio, quando nota. Sono interrati nel marciapiede prospiciente l’abitazione del deportato, proprio sulla soglia, sul crinale tra la vita normale nella propria casa e tra gli affetti, e un destino ignoto seppure tragicamente annunciato. Non sono un corpo estraneo alla città, ma parte integrante di essa, una delle tante pietre che la pavimentano. Discrete perché non s’impongono alla vista se non quando vi si inciampa ma allo stesso tempo radicate e permanenti…vandali permettendo! La loro unicità risiede nel fatto di non occupare una postazione unica, deputata alla memoria, ma di essere disseminati nelle città, nelle regioni, negli Stati, di essere cioè un monumento diffuso a scala europea: dal 1992, quando è stata installata la prima pietra a Colonia, a oggi, oltre 56.000 Stolpersteine sono stati collocati in 20 paesi europei. L’idea di Demnig è di posizionarne personalmente uno per ogni deportato: una meta impossibile da raggiungere, occorrerebbero migliaia di anni, un tempo veramente biblico. Gli Stolpersteine saranno dunque sempre un’opera aperta, non finita, in fieri.

Monumento diffuso: un altro ossimoro, ancora più radicale di “monumento vivente” o di “monumento invisibile”. Anziché un monumento da contemplare gli Stolpersteine costruiscono una mappa della memoria in fieri da percorrere, che si espande nel centro storico, nei quartieri borghesi e residenziali ma anche in quelli popolari e nelle borgate, ovunque siano vissuti gli oppositori al nazi-fascismo. Ogni quartiere ha il “suo” monumento ai “suoi” caduti, ma hanno tutti lo stesso valore. Possiamo definire allora gli Stolpersteine il primo memoriale anti-gerarchico, democratico: uguali per forma, dimensione, materiali, carattere tipografico, sono diversi solo per le vite che raccontano.

Sostiene Loewenthal: «restituire a ciascuna vittima il proprio nome è doveroso perché il nome è segno di vita, la traccia che ogni individuo lascia nel mondo». E il senso delle “pietre d’inciampo” è proprio di restituire attraverso il nome dignità di persone a chi è stato ridotto a numero e poi in cenere e, soprattutto, di “riportare a casa” chi vi è stato brutalmente strappato per non farvi più ritorno. Lo Stolperstein è il più piccolo memoriale concepibile, nel luogo che identifica, insieme al nome, ogni singolo deportato; non una tomba ma il luogo dove è possibile sostare per ricordare le vittime della «distruzione senza rovina» di cui parla Wajcman. A partire da quello di Washington, dedicato nel 1981 ai caduti nella guerra del Vietnam, ma ancora prima da quello di Carpi, si sono nel tempo moltiplicati i monumenti e i memoriali che ricordano discretamente i caduti nominandoli: la peculiarità degli Stolpersteine è che quei nomi non sono riuniti in una lapide o su un monumento o non sono letti uno dopo l’altro come in molte parti del mondo in occasione del Giorno della Memoria, ma sono disseminati nei luoghi che li hanno visti vivi per l’ultima volta. E chi oggi abita nello stesso palazzo, o vi passa occasionalmente, inciampando in quelle pietre, non può non interrogarsi su come si comporterebbe oggi se un inquilino della sua casa, un vicino o un concittadino corresse gli stessi pericoli. Il passato, che sembra tanto lontano da noi, si avvicina così drammaticamente e diviene parte della nostra vita quotidiana. Gli Stolpersteine sono sì dedicati alle vittime ma vivono in mezzo a noi, raccontano succintamente una storia che vieta ogni indifferenza – proprio la parola che Liliana Segre ha voluto all’ingresso del memoriale al binario 21 di Milano – e pretende una risposta, positiva o negativa, un fiore o un barattolo di vernice per cancellare quella storia.

Ancora, gli Stolpersteine sono un potente strumento per conoscere, anche attraverso la geografia dei luoghi, la storia, per sfatare luoghi comuni, per scoprire complicità e indifferenze degli “italiani brava gente”, alleati fedeli e solerti dell’occupante tedesco e sguinzagliati in tutte le città a caccia degli oppositori. Sono anche un formidabile strumento contro il revisionismo e il negazionismo, perché la veridicità delle informazioni incise nelle pietre e verificate negli archivi e nei libri della memoria, non è confutabile.

Contro la guerra tra le memorie e tra le vittime poi, le “pietre d’inciampo” sono dedicate indistintamente a tutti i deportati, razziali, politici, militari, Rom, sinti, omosessuali, testimoni di Geova, disabili, vittime alla pari del nazi-fascismo tra il 1933 e il 1945. Il progetto nasce infatti nel 1990 per ricordare i 50 anni dalla deportazione di 1000 sinti a Colonia nel 1940.

Infine, sono i famigliari a commissionare le pietre ma, una volta installate, esse diventano parte della città, appannaggio di tutti i cittadini che ne diventano i custodi, responsabili della loro incolumità. Così una memoria privata, difesa gelosamente per anni, diventa pubblica, patrimonio della collettività.

Da sei anni, ogni anno, a Roma e in molte altre città e regioni italiane si celebra il Giorno della Memoria installando le pietre d’inciampo: i parenti delle vittime, provenienti dai quattro angoli del mondo, riuniti spesso per la prima volta, i rappresentanti delle istituzioni, quelli della comunità ebraica, le associazioni dei partigiani e degli ex deportati, gli studenti coinvolti nel progetto didattico e i loro insegnati, semplici cittadini, si raccolgono intorno all’artista che inginocchiandosi per installare le pietre rende omaggio alla memoria delle vittime. Cerimonie che sono allo stesso tempo una lezione di storia, una riunione di famiglia, un momento di raccoglimento per recitare un kaddish. A fronte della frenetica ricerca di novità che caratterizza il Giorno della Memoria, l’installazione degli Stolpersteine prevede ogni anno la ripetizione dello stesso rituale, come si conviene del resto a una ricorrenza: sempre uguale ma sempre diverso, come quelle pietre che tappezzano l’Europa per ricordare un destino comune ma occorso a milioni di individui tutti diversi.

[1] Claudio Magris, Intervento al Quirinale, 27 gennaio 2009.

[2] Gérard Wajcman, Un monumento invisibile, in Cristina Baldacci e C. Ricci (a cura di), Quando è scultura, et al. Edizioni, Milano 2010, p. 47.

[3] Tzvetan Todorov, Gli abusi della memoria, trad. it. di Antonio Cavicchia Scalamonti, Napoli, Ipermedium libri 1996, p. 40.