Introduzione al catalogo della mostra Gli architetti di Zevi Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000 (a cura di Pippo Ciorra e Jean-Louis Cohen), MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Quodlibet, Macerata 2018
Il Museo progettato da Zaha Hadid è senza dubbio la cornice più adatta alla mostra con cui la Fondazione Bruno Zevi apre le celebrazioni per il centenario della nascita dello storico e critico di architettura. un ringraziamento sincero va alla Presidente del MAXXi Giovanna Melandri, alla direttrice MAXXI architettura Margherita Guccione, ai curatori Jean-Louis Cohen e Pippo Ciorra, ai prestatori delle opere, ai tanti che si sono prodigati per conseguire questo risultato.
in tempi di omologazione etica, estetica e critica, dedicare una mostra a un personaggio scomodo, che non conosce mezze misure, che ama e odia, apprezza e disprezza con pari passione e veemenza, è certamente una sfida. Ce la siamo assunta collegialmente ed è stata una bella avventura culturale e umana. È una mostra che scoraggia ogni tentazione revisionista del suo pensiero; non lo edulcora, ammansisce, riconduce nell’alveo politicamente ed esteticamente corretto.
Ha un doppio registro: le opere e la critica, per Zevi strettamente intrecciate, sino a fondersi nella “critica operativa”, un dipartimento universitario ma, prima, una metodologia poetica: la storia e la critica focalizzano i nodi linguistici delle opere del passato per consegnarli alla progettazione contemporanea. Per questo, dove possibile, estratti dai libri, editoriali de “L’architettura”, articoli da “L’espresso”, discorsi e prolusioni commentano direttamente le opere.
il criterio allestitivo è quello alfabetico degli “architetti di Zevi”. Se assumessimo invece, per ipotesi, quello cronologico, noteremmo un tracciato discontinuo, che alterna momenti di concentrazione ad altri di rarefazione, momenti in cui le opere si affollano ad altri in cui si diradano per cedere il passo alla parola e alla scrittura. densi gli anni tra l’immediato dopoguerra e i primi anni Settanta, quando la battaglia per l’architettura moderna, in chiave soprattutto organica, fonde con quella per il consolidamento della democrazia in un Paese ancora paralizzato e attonito dopo vent’anni di oscurantismo fascista. Se si aggiunge il peso crescente che negli stessi anni quei pionieri assumono negli organismi istituzionali e decisionali, si comprendono le ragioni dell’euforia, passione, entusiasmo che animano Zevi nell’evocare quegli anni. “Era chiaro a tutti, nell’ottobre 1959, che, proprio per la presenza di tante forze virtualmente ostili, noi incarnavamo la parte vincente. Nel 1944, all’indomani della Liberazione, l’Associazione per l’Architettura Organica (APAO) aveva rappresentato l’impulso e l’urto rivoluzionario. Per merito di cinquanta, cento, duecento architetti organici sparsi da Torino a Palermo, l’Italia fu reinserita nel circuito dell’architettura mondiale, superando l’isolamento fascista. Eravamo gli orfani di Edoardo Persico, di Giuseppe Pagano e di Terragni, ne impersonavamo l’eroica eredità, eravamo decisi e non permettere più che l’Italia fosse la terra della restaurazione, dell’accademia, dell’anti-cultura. Nei primi due concorsi del dopoguerra, quello per il Memoriale alle Fosse Ardeatine e quello per il blocco frontale della Stazione Termini, il Movimento Moderno prevalse contro tutte le scorie della dittatura totalitaria. Eravamo la nuova generazione dei leader che dal 1952 aveva conquistato il potere nell’istituto Nazionale di Urbanistica. Adesso, nel 1959, con l’IN/Arch trovavamo lo strumento idoneo per orientare una stagione di prosperità edilizia […] Praticamente, dominavamo tutta la pianificazione dall’alto con l’INU e quella dal basso con Danilo Dolci. Grazie a Ugo La Malfa e a Fiorentino Sullo, partecipavamo alla commissione nazionale di programmazione economica”(1). Parole scritte ma mai pronunciate: avrebbero dovuto aprire il congresso Nazionale dell’IN/ARCH il 20 gennaio 2000, undici giorni dopo la sua scomparsa. Sono le parole di un ragazzo un pò invasato che ha il mondo davanti a sé, convinto che la battaglia politica e quella culturale procedano sempre di pari passo. Le opere in mostra corrispondenti a quegli anni giustificano tanto fervore: i capolavori notissimi di Pier Luigi Nervi, Franco Albini, Mario Ridolfi, Riccardo Morandi, carlo Scarpa, Giovanni Michelucci, carlo Mollino si affiancano alla prosa di Aldo Loris Rossi, Enzo Zacchiroli, Michele capobianco, diffusa nelle città e sul territorio, quella cui Zevi ha voluto sempre dar voce sulle pagine di una rivista non a caso intitolata “L’Architettura. cronache e storia”.
La Strada Novissima di Paolo Portoghesi alla Biennale di Venezia del 1980 annuncia però la stagione funesta del postmoderno, che troverà sin dall’inizio l’opposizione feroce e spietata di Zevi, nutrita di disprezzo e disgusto. Come visualizzare il passaggio? Scartata l’ipotesi di illustrare i bersagli dei suoi strali in una sorta di galleria degli orrori dove il Teatro Carlo Felice di Genova avrebbe sfilato a braccetto con la Moschea di Roma, il Vittoriano, il Colosseo Quadrato, il Palazzo delle Esposizioni e… tanti altri esemplari deturpanti, restava la polemica furente contro dogmi, armonia, simmetria, proporzione, saccheggio citazionista e anacronista dei degni figli di Piacentini, Brasini, Bazzani, Muzio. Veicolata da una scrittura talmente plastica, incisiva e colorita da non necessitare di supporti visivi. A fronte dei pochi progetti di “resistenza” degli “architetti di Zevi”, degli anni Ottanta-Novanta la mostra documenta soprattutto l’attività critica indefessa del “Zevi contro”, che affila le armi in attesa che “gli sciagurati protagonisti del postmoderno scompaiano ignominiosamente dalla scena”(2). Ciò che accade puntualmente nel 1988, proprio nella terra in cui il postmoderno è più dilagato.
“Una nuova pagina si è aperta all’architettura, anche se solo poche decine di architetti nel mondo ne sono pienamente coscienti. La nuova epoca è caratterizzata da un nuovo costume professionale, da nuovi strumenti progettuali e, segretamente, da nuovi ideali […] Cinquemila anni di storia autoritaria sono così liquidati. Non restano che gli atti creativi, le eccezioni alle regole. Gli architetti restano senza precetti, ordini, proporzioni ritmi, equilibri, bilanciamenti, simmetrie cadenza ripetitive, modelli prescrittivi, moduli da imitare, dogmi e tabù da rispettare. L’intero apparato delle convenzioni e delle abitudini risulta estirpato. Dalla sera alla mattina, vince solo la deroga, l’abnorme. I tavoli da disegno vanno al macero, perché quel disegno non serve più; giganteschi falò di righe a T, squadre, tecnigrafi, compassi liberano gli studi professionali. Si lavora con il computer che ignora la linea dritta, il parallelismo, l’angolo retto, l’uniformità e lo standard. Sconfitti i velleitarismi uguagliatori, trionfa la diversità e la ricerca di identità diventa costume di vita […] La nuova architettura incarna la democrazia, giustizia e libertà, il liberalsocialismo con le sue contraddizioni, la sua cacofonia, la sua affabilità al caos”(3). Così Zevi plaude al Decostruttivismo consacrato al MoMA di New York dalla mostra curata da Mark Wigley e dal “pentito” Philip Johnson. Tra i sette architetti che vi espongono c’è anche Zaha Hadid: a lei è dedicata nel 1996 la prima monografia della collana “Universale di architettura” pubblicata da Testo & Immagine. Nessun italiano è presente in quella mostra e dunque nessuno dei sette è in quella dedicata agli “Architetti di Zevi” a Roma. Ma, nuovamente, la critica sferzante visualizza e plasma forme disarmoniche, asimmetriche, disturbate e contaminate, cavità vissute, scomposte e frantumate. Se nell’allestire la mostra su Biagio Rossetti al Teatro Comunale di Ferrara nel 1956, quella sulle opere michelangiolesche al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1964 e quella su “Brunelleschi anticlassico” nei chiostri di S. Maria Novella a Firenze nel 1978, Zevi ha dovuto escogitare soluzioni sovversive per restituire il senso dell’eresia di quei maestri, lo spazio dinamico e agitato del MAXXI calza alla perfezione con il pensiero rivoluzionario di un suo esegeta convinto.
Ecco, come una grande lezione di storia dell’architettura dispiegata nello spazio e nel tempo, questa mostra vuole iniettare, negli studenti, nei giovani ma anche nei professionisti comprensibilmente demotivati, una scarica di energia e di entusiasmo, un invito a scuotersi dal torpore e ad assumere nuovamente una attitudine critica.
Nel 2000, nel commemorare Zevi a Tel Aviv a pochi mesi dalla scomparsa, Frank O. Gehry invitava i giovani che gremivano la sala a tenere sempre sotto il cuscino “Saper veder l’architettura” e a prenderlo in mano nei momenti di crisi e di sconforto. Oggi, nel ricordarlo in occasione del Centenario della nascita, possiamo aggiungere l’invito a visitare, meditare, godere questa mostra.
1 B. Zevi, “Architettura: una risorsa per la modernizzazione”, prolusione al Congresso Nazionale IN/ARCH, Roma, 20-21 gennaio 2000, Archivio Bruno Zevi, busta 11.05.06, Istituto Nazionale di Architettura (IN/ARCH), Fondazione Bruno Zevi, Roma.
2 B. Zevi, Sulla poetica della frammentazione, “L’architettura. Cronache e storia”, XLI, p. 706. 3 Ibid.
3 Ibid.