intervento alla tavola rotonda “Dalla vita al museo: beni culturali ebraici in Italia” organizzata a Ferrara il 19 aprile 2010 in occasione del primo Festival del libro ebraico. Pubblicato in “La Rassegna Mensile di Israel”, vol.LXXV, n.1-2, gennaio-agosto 2009
Cosa vi aspettate di trovare in un museo ebraico, cosa vorreste trovare in un museo ebraico? Queste le domande poste da Daniela di Castro ai partecipanti alla tavola rotonda organizzata nell’ambito del Festival del libro ebraico di Ferrara, lo scorso aprile: la prima iniziativa pubblica del MEIS, il Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoà che dimorerà nelle ex carceri cittadine di via Frangipane.
Data la mia competenza architettonica e artistica, ho risposto al secondo quesito, analizzando i musei ebraici come contenitori architettonici e, in particolare, come contenitori di arte contemporanea. Sorvolando invece su tutto ciò che generalmente ci si aspetta di trovare in un museo ebraico, cioè gli oggetti di Judaica.
La casistica dei musei ebraici è assai vasta: se agli albori del XX secolo si assiste a un loro primo fiorire in Europa – da Vienna a Danzica, da Praga a Varsavia –, e al primo nucleo del Jewish Museum di New York, a partire dagli anni ’80, l’ossessione mnemonica e memorialistica porta, accanto al proliferare di memoriali e musei dedicati alla Shoà, anche al moltiplicarsi di musei dedicati alla storia degli ebrei nei singoli Paesi, fino a raggiungere il numero cospicuo di 50 in ben 25 Stati europei. Una prima considerazione concerne l’opportunità di separare i musei ebraici da quelli della Shoà. Se, come si ripete da più parti, la Shoà, con tutta la sua drammatica unicità, non può essere avulsa dalla storia che l’ha generata e da quella del popolo che l’ha subita, la strada imboccata dal nuovo museo di Ferrara è quella giusta.
Dal punto di vista strettamente architettonico, vale distinguere almeno due categorie di musei: quelli che hanno sede in edifici esistenti, il cui valore e significato è parte integrante della storia raccontata e documentata nel museo, e quelli progettati ex novo. Tra questi ultimi è lecito ancora distinguere tra quelli immersi nel paesaggio come l’Israel Museum a Gerusalemme; quelli cresciuti a fianco e in continuità con altri esistenti, come a Budapest, dove il nuovo organismo elegge la vecchia sinagoga ad approdo del percorso espositivo; quelli infine sorti su luoghi di particolare risonanza storica e simbolica, come il Museo storico dell’ebraismo polacco che occuperà dal 2012 l’area del ghetto di Varsavia.
Il mio excursus prevede un’eccezione: il nuovo museo di Yad Vashem a Gerusalemme che, pur dedicato esclusivamente alla Shoà, riveste un grande interesse dal punto di vista architettonico.
Ferrara è un caso anomalo: il museo alloggerà in una struttura esistente, l’ex carcere cittadino, di non particolare pregio monumentale, la cui storia intreccia solo parzialmente quella ebraica: da lì furono deportati o uccisi anche ma non solo prigionieri ebrei.
Credo sia aperta e accesa la discussione circa l’opportunità che l’edificio mantenga riconoscibile la sua funzione originaria o se sia invece meglio trasformarlo radicalmente per adeguarlo alla nuova destinazione, spogliandolo dei suoi attributi di reclusione e sofferenza. Ritengo che la conservazione e la riconoscibilità anche parziale dell’assetto originario sia necessaria per preservarne la specificità, per stimolare un’organizzazione museale originale, contro il rischio di omologazione. È quanto accade a Roma nell’ex carcere minorile di Carlo Fontana nel complesso del S. Michele, ora luogo espositivo, o, sempre a Roma, in via Tasso, nell’ex carcere della Gestapo, ora Museo della Liberazione, dove due artisti contemporanei del calibro di Fabio Mauri e Mel Bochner hanno ideato lavori di altissimo valore etico ed estetico.
Due soli esempi per la prima categoria di musei, quelli ospitati cioè in edifici esistenti: il Musée d’art e d’histoire du Judaisme che apre nel 1998 nel Marais, il quartiere parigino dove, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, si installano gli ebrei in fuga dall’Europa orientale, e il notissimo Jewish Museum di New York. Nelle vecchie foto dell’Hotel de Saint Aignan, pregevole esempio di classicismo seicentesco, si riconoscono al piano terra, intorno al cortile, le botteghe di artigiani ebrei che vendono carta, cravatte, pelletteria, berretti. Oggi, a seguito della radicale operazione di restyling, di quelle botteghe non resta più traccia. Sarebbe bello se l’artista israeliano Shimon Attie vi adattasse il suo lavoro Writing the Wall realizzato a Berlino: le immagini, reperite negli archivi, di quelle botteghe, proiettate sui luoghi, oggi dimentichi, che un tempo le ospitavano. Un lavoro precario e reversibile che, nel breve tempo della proiezione, salda indissolubilmente il passato e il presente. Da quel luogo, nel ’42, dodici persone furono deportate e non vi fecero più ritorno. A loro è dedicato l’unico lavoro d’arte sulla Shoà dell’intero museo, The Inhabitants of the Hotel de Saint-Aignan in 1939, un’opera permanente. In un cortile interno, non praticabile ma visibile nel corso della visita, l’artista Christian Boltanski ha tappezzato le pareti con una sorta di annunci funebri sui quali si legge il nome e il cognome, la città di provenienza e il mestiere dell’abitante dell’albergo nel ’39. Solo quelli dedicati agli ebrei recano la data 1942.
La scrittura e il suo supporto accomunano tutti gli abitanti dell’albergo; la data ne distingue i destini. Ricordare gli scomparsi attraverso il nome e pochi dati che ne restituiscano individualità e umanità è a mio avviso uno dei modi più discreti ma efficaci cui ricorrono gli artisti contemporanei alle prese con la memoria. E Boltanski è certamente tra questi, con il lavoro parigino ma anche con The Missing House a Berlino, dove i nomi degli ex abitanti di un edificio distrutto sono riportati sui due edifici contigui, all’altezza dei piani in cui abitavano. Come pure Jochen Gerz, il cui notissimo Monumento contro il fascismo, realizzato nell’86 ad Amburgo, è inghiottito dalla terra sette anni dopo: i visitatori che appongono le loro firme sulla colonna di piombo, nel provocarne lo sprofondamento, assumono su di sé il ruolo di testimoni prima delegato al monumento. Se i muri che scandiscono l’ingresso del memoriale alla Shoà di Parigi sono vergati dai nomi dei deportati ebrei francesi, vale soffermarsi sul monumento in memoria di Francois Arago realizzato dall’artista olandese Jan Dibbets.
Nel 1994 Dibbets è invitato dalla città di Parigi a progettare un monumento in memoria di François Arago. Eminente fisico e astronomo, Arago è direttore dell’osservatorio di Parigi, quindi presidente dell’Accademia delle Scienze, universalmente riconosciuto padre della divulgazione scientifica moderna. Nel 1806, ancora studente al politecnico, è incaricato del prolungamento fino alle Baleari del meridiano di Parigi, quello che attraversa la Francia da nord a sud e che, dal 1799 al 1884, fino cioè alla sostituzione con quello di Greenwich, è il meridiano originario.
Nel 1893, a quarant’anni esatti dalla morte, Parigi gli dedica una statua in bronzo: poggia su un alto basamento, a place de l’Ile de Sein, dove il meridiano di Parigi taglia boulevard Arago. Nella Parigi occupata dai nazisti, la statua è rimossa per fonderne il piombo. Che fare del piedistallo orbo di statua? Passano altri cinquant’anni prima dell’incarico a Dibbets, che concepisce un «monumento immaginario realizzato sulle tracce di una linea immaginaria, il meridiano di Parigi». 135 medaglioni in bronzo del diametro di 12 centimetri recano il nome di Arago stretto tra le due lettere che indicano il nord e il sud: tratteggiano infatti un percorso che, dal piedistallo del monumento originario, si estende a nord e a sud attraverso 6 arrondissements.
Come gran parte dei musei ebraici, quello parigino nasce dalla convergenza di due collezioni. Quella del Musée d’Art juif, fondato nel 1948 da un gruppo di ebrei dell’Europa orientale, comprende oggetti confiscati dai nazisti, modelli in scala delle sinagoghe polacche e russe, una raccolta di interviste ad artisti ebrei dall’inizio del secolo sulla loro identità ebraica in quanto artisti. La collezione di Isaac Strauss, invece, la prima in assoluto di oggetti di arte ebraica, proviene dal Musée national du Moyen Âge a Cluny. Il Musée de l’art et de l’histoire du Judaisme è organizzato cronologicamente: se dal ME al XVIII secolo gli oggetti esposti sono indiscutibilmente annoverabili come arte ebraica, per funzione, decorazione, identità dell’autore e pubblico cui è destinata, se al secolo successivo appartengono dipinti che ritraggono personaggi e scene di vita ebraica – oltre all’importantissima collezione donata dagli eredi del capitano Dreyfus – dal XX secolo diviene più arduo definire cosa sia l’arte ebraica e chi siano gli artisti ebrei. Il museo registra la svolta documentando la presenza ebraica nell’arte del XX secolo, vale a dire la presenza degli artisti ebrei nell’ambito dell’avanguardia artistica del Novecento. L’identità ebraica dell’autore è cioè di importanza secondaria rispetto alla sua identità di artista moderno. Chagall o gli artisti della Scuola di Parigi, da Amedeo Modigliani a Jules Pascin a Chaim Soutine, volevano essere riconosciuti prima come artisti moderni che come artisti ebrei. Nati e cresciuti in un contesto ebraico, trovano infatti il loro linguaggio originale a contatto con i movimenti artistici d’avanguardia. E tale politica caratterizza ancora oggi la scelta degli artisti e delle mostre ospitate dal museo parigino: da Christian Boltanski a Bruno Schulz, da Rembrandt and the New Jerusalem a Charlotte Salomon, artisti ebrei e tematiche ebraiche ma rivolti a un pubblico decisamente più vasto.
E veniamo al Jewish Museum di New York, di cui vale sottolineare la politica davvero unica nei confronti dell’arte contemporanea. Il primo nucleo risale al 1904: il giudice Mayer Sulzberger dona 26 oggetti da cerimonia al Jewish Theological Seminary of America come primo embrione di museo ebraico da accorpare alla biblioteca. Se fino al 1931 gli oggetti hanno un peso nettamente inferiore alla collezione libraria, a partire da allora, grazie ad altre corpose donazioni ma soprattutto a partire dalla guerra, quando i musei europei inviano le loro collezioni di Judaica a New York per evitarne la confisca, il Jewish Museum si configura come il più importante museo ebraico del mondo.
Nel 1944 Frieda Warburg dona al Seminario la sua casa a Fifth Avenue, sorta di castelletto in stile gotico francese, sviluppato su 6 piani e con ben 50 stanze, per ospitare un museo di oggetti ebraici autonomo dalla collezione libraria. Dopo tre anni di restauri e di accese discussioni su ruolo,
identità e destinatari, nel ’47 il museo apre finalmente i battenti. È subito evidente come la sua posizione, tra il Metropolitan Museum of Art e il Museum of Non-Objective Painting (futuro Guggenheim), rappresenti una sfida a competere con istituzioni così prestigiose proprio sul piano museale e artistico. È infatti Meyer Shapiro, professore emerito di storia dell’arte alla Columbia University a proporre, un anno prima dell’apertura, che il museo, oltre alla collezione di oggetti da cerimonia, all’attività didattica e di ricerca, ospiti mostre di artisti ebrei, morti o viventi, che lavorano nella «tradizione moderna», da Marc Chagall a Soutine, da Alfred Stieglitz a Max Weber ad Abraham Walkowitz a Jacques Lipchitz, fino ai contemporanei Adolph Gottlieb e Mark Rothko, protagonisti dell’espressionismo astratto, dunque della prima poetica autenticamente americana, emancipata dal gioco europeo. Non è questa la sede per approfondire perché tanti di quei protagonisti siano ebrei, né perché lo siano i loro mentori, da Clement Greenberg ad Harold Rosenberg a Meyer Shapiro. Certamente, con la guerra e l’esilio dei protagonisti dell’avanguardia artistica europea, New York soppianta Parigi come centro mondiale dell’arte. E la generazione espressionista-astratta è la prima a metabolizzare la lezione europea volgendola in esiti originali. Invitato nel 1966 a tenere al Jewish Museum una lezione sul tema Is There a Jewish Art?, Harold Rosenberg, dopo aver esordito sarcasticamente dicendo: «Prima costruiscono un museo ebraico e poi si chiedono se esiste un’arte ebraica»,1 arriva a conclusioni sorprendenti. Sostiene cioè che il lavoro di quegli artisti, fortemente impegnato nella ricerca di una identità individuale, pur non potendo essere confinato nella definizione di «arte ebraica», è certamente «espressione profondamente ebraica e nello stesso tempo portatore di un significato universale al passo con i nostri tempi».2 Per Rosenberg, cioè, l’artista autenticamente americano, cioè il l’action painter, secondo un termine da lui coniato, coincide con l’artista ebreo: «Essere impegnato nell’estetica del sé ha liberato l’ebreo come artista eliminando la necessità di interrogarsi se l’arte ebraica esista o possa esistere».3 L’intervento di Rosenberg va contestualizzato. Tra il 1960 e il 1971, infatti, cioè per un intero decennio, storici dell’arte ebrei di prestigio e collezionisti ebrei colti e illuminati si coalizzano per fare del Jewish Museum di New York non solo il più importante museo ebraico del mondo, ma il più avanzato museo d’arte contemporanea della città. Nel 1957, ad esempio, in occasione del decimo anniversario del museo, a seguito di un periodo di riflusso dovuto alla presenza quasi esclusiva della collezione di oggetti da cerimonia, è nuovamente Meyer Shapiro, vero deus ex machina dell’istituzione, a spingere nella direzione dell’arte contemporanea. è lui a curare, nello stesso anno, la mostra Artists of the New York School: Second Generation, dove il pubblico newyorchese ha la possibilità di vedere per la prima volta le opere di Jasper Johns e Robert Rauschenberg, i protagonisti della generazione post informale e neo-dada. Il successo è tale che, nei tre anni successivi, il museo conferma la stessa politica, ospitando le personali degli artisti che avevano esordito nella mostra precedente. Una politica lungimirante che guadagna al museo cospicui finanziamenti da parte di collezionisti e amatori, come Vera List, la cui donazione nel ’60 consente l’ampliamento di tre piani e l’aggiunta di una corte interna. Far parte del board del Jewish Museum costituiva insomma, per la borghesia ebraica colta e benestante, un vanto e una rivincita rispetto a istituzioni rivali quali il Museum of Modern Art. Nel ’62, Alan Solomon, studente ad Harvard, professore alla Cornell University, modernista convinto, praticamente digiuno di arte ebraica, è nominato direttore. Tre mostre da lui curate tra il ’63 e il ’64 fanno scalpore: la prima retrospettiva in assoluto di Robert Rauschenberg, la mostra Toward a New Abstraction, la prima a illustrare la nuova tendenza dell’astrattismo americano, la retrospettiva di Jasper Johns. Ma, al culmine del successo, nello stesso ’64, quando il premio internazionale della Biennale di Venezia conferito a Rauschenberg conferma la lungimiranza del museo e delle sue scelte culturali, con la scusa del deficit economico ma soprattutto a causa delle polemiche innescate dalla radicalità delle mostre e da una loro presunta incompatibilità con la collezione permanente, Solomon è licenziato e il Jewish Seminary riprende pieno potere sul museo nominando un board di sua fiducia. Eppure, l’anno successivo, gli succede come nuovo direttore Sam Hunter, altro modernista convinto, direttore del Rose Art Museum di Brandeis e curatore del MoMA. Ospita mostre altrettanto leggendarie, come le retrospettive di Kenneth Noland, Larry Rivers e Ad Reinhardt, ma, soprattutto, nel ’66, Primary Structures, la prima a tenere a battesimo il minimalismo. «Abbiamo fatto la cosa giusta al momento giusto ma nel posto sbagliato»,4 dichiara nel ’67, quando anche lui è invitato a dimettersi. Questa stagione felice si conclude nel ’71, dopo tre anni di direzione di Karl Katz, un allievo di Shapiro alla Columbia University, con un passato di quindici anni di insegnamento al Bezalel Art Museum di Gerusalemme. Nonostante i buoni propositi di ospitare mostre meno costose, focalizzate su tematiche sociali e morali, aperte a Israele e all’arte tradizionale ebraica, a lui si devono mostre di grande apertura come Software, sull’impiego delle nuove tecnologie nell’arte contemporanea. Causa la recessione iniziata nel ’69, causa il fatto che i collezionisti che si erano fatti le ossa al Jewish Museum erano stati tutti ammessi nel board del MoMA, il museo inverte drasticamente la rotta rinunciando all’attività espositiva non diretta a un pubblico strettamente ebraico e dedicandosi prevalentemente alla collezione permanente di Judaica. Così, se la guerra dei Sei Giorni avvicina gli ebrei americani a Israele rendendoli fieri e orgogliosi della loro identità ebraica, la mano per le mostre di punta di arte contemporanea passa al MoMA e al Whitney.
Da depositario dell’arte ebraica europea annientata dal nazismo a convinto assertore della coincidenza tra arte americana e arte ebraica alla riscoperta di una identità ebraica strettamente legata a una realtà nazionale: questa in sintesi la parabola del Jewish Museum dagli esordi agli anni ’70. Ma anche quando torna a essere più Jewish che Museum, il Jewish Museum precorre i tempi: dalla metà degli anni ’70, infatti, sulle ceneri dell’universalismo modernista, le minoranze etniche, religiose e culturali, dagli afroamericani alle donne agli omosessuali, rivendicano le loro radici e la loro autonomia espressiva. E nelle loro fila molti artisti, soprattutto molte artiste, da Nancy Spero a Judy Chicago, da Miriam Shapiro a Barbara Kruger, sono ebrei.
Riprendendo il discorso dove l’aveva lasciato Rosenberg e nel tentativo di definire una possibile arte ebraica postmoderna, Noam Elcott così ragiona: Dopo essere stati accettati nel mainstream americano, gli ebrei hanno cominciato a metterlo in discussione dall’interno […]. Se noi traduciamo l’enfasi di Rosenberg sull’individuo che parla in chiave universale in quella sull’individuo che parla in favore e come parte di una minoranza pluralista e sfaccettata – e cioè dall’Espressionismo Astratto al femminismo – potremmo arrivare a una definizione di arte ebraica postmoderna.5
Comunque sia, il Jewish Museum ha continuato e continua a svolgere ancora oggi il ruolo di museo d’arte d’avanguardia, ospitando monografiche di grandi artisti ebrei scomparsi come Eva Hesse e Louise Nevelson, affrontando con coraggio e anticonformismo il tema della Shoà, come nella mostra Mirroring the Evil:Nazi Imagery/Recent Art, una mostra provocatoria dove 13 artisti sono invitati nel 2002 a porci faccia a faccia con il diavolo, cioè il nazismo, adottandone l’iconografia. Peter Uklanski dispone ad esempio in sequenza 166 fotografie di attori che hanno impersonato il ruolo di nazisti, giocando ambiguamente tra l’attrazione per l’attore-eroe e la repulsione per il ruolo da lui impersonato. Altre mostre illustrano le realtà ebraiche di altre Paesi, come l’Italia di Gardens and Ghettos, altre ricordano l’infamia dell’antisemitismo, come quella dedicata al caso Dreyfus.
Tra quelli costruiti invece ex novo consideriamo tre casi linguisticamente e simbolicamente dissonanti: l’Israel Museum di Gerusalemme, opera dell’architetto Alfred Mansfeld, il Jewish Museum di Berlino, progettato da Daniel Libeskind e la nuova ala dello Yad Vashem, a firma di Moshe Safdie. Trattandosi di tre architetti ebrei, le loro metodologie progettuali esprimono altrettante attitudini ebraiche al tavolo da disegno.
L’Israel Museum consiste del museo vero e proprio, a carattere enciclopedico, con 500.000 pezzi che spaziano dall’astrologia preistorica all’arte contemporanea, e The Shrine of the Book, dove sono custoditi i preziosi Rotoli del Mar Morto. Opera di Friedrick Kiesler, quest’ultimo ha una forma originale e anomala: è a pianta circolare, con un profilo sinuoso che evoca e asseconda quello delle colline circostanti. Antitetica la soluzione di Mansfeld: moduli stereometrici di dimensione diversa, la cui altezza variabile è stabilita dai dislivelli della collina su cui poggiano. Tutti uguali ma tutti diversi, adottano un linguaggio universale ma aperto, flessibile e moltiplicabile, moderno ma integrato al paesaggio antichissimo, in dialogo con le preesistenze monumentali del monastero bizantino dei Crociati, ma anche con gli edifici contemporanei della Knesseth e dell’Università.
Ancora diversa la soluzione adottata da Libeskind per l’addizione ebraica al Museo della Città di Berlino. Anche se la continuità tra i due edifici attesta e ribadisce l’indissolubilità fra la cultura ebraica e quella tedesca, il linguaggio dissonante del progetto denuncia con veemenza una rottura profonda e insanabile. All’armonica forma a U del vecchio organismo neorinascimentale, Libeskind affianca un zig-zag, una linea sincopata e scattante, come una scarica elettrica spaziale. Between the Lines è il titolo conferito da Libeskind al progetto: «concerne due linee di pensiero, di organizzazione, di relazione. La linea retta, ma frammentaria, e quella tortuosa, indefinitamente aperta».6 Le due linee si sviluppano architettonicamente e programmaticamente attraverso un dialogo definito. Si separano e si disimpegnano, esponendo un vuoto che attraversa il museo e l’architettura, un vuoto discontinuo. Non si tratta di un segno arbitrario, ma del risultato della distorsione, fino alla rottura, di una stella di Davide intenta a connettere sulla pianta della città le abitazioni dei protagonisti della cultura ebraica. Una forma-percorso: ora claustrofobico, ora disagevole per le improvvise impennate, raramente confortante. L’ingresso è nel vecchio edificio; di lì si scende sotto terra per risalire poi nel nuovo organismo.
Dove ci attendono tre scelte: il tunnel espositivo; il giardino dell’esilio, apparentemente razionale per la pianta quadrata e la scansione regolare dei 49 pilastri di cemento ma altamente disorientante per il pavimento in salita; il memoriale alla Shoà, infine, una torre chiusa, altissima, da cui è possibile vedere solo il cielo: uno spazio dove il tempo è momentaneamente sospeso. Quanto alla luce, alla monotona successione di bucature tutte uguali che caratterizza l’edificio preesistente, Libeskind contrappone una superficie di acciaio, i cui moduli si succedono in diagonale, martoriata da un inventario di ben 1500 aperture di foggia e dimensioni diverse.
Nel contravvenire ogni codice linguistico, nell’affidare lo spazio espositivo al tempo del percorso, nelle brusche e improvvise sterzate direzionali, nel disequilibrio dei livelli, il progetto di Libeskind, nato in Polonia, ma errante, appassionato di Arnold Schoenberg e di Walter Benjamin, è un monumento nel cuore dell’Europa, radicato nella sua storia drammatica, che registra, in un’architettura angosciata e nevrotica, il vuoto di una frattura insanabile. Libeskind inaugura qui un linguaggio inedito, consono a una tragedia irrappresentabile con i codici a disposizione. «è come avere un milione di pezzi di un mosaico che non compongono la stessa figura, che non potranno mai essere assemblati e costruire una unità, poiché non provengono da un insieme unitario».7 In poche parole, la rappresentazione spaziale della polifonia dell’ebraIl museo di Berlino fa proseliti: il primo è lo stesso Libeskind che a Copenhagen e a San Francisco realizza altri due musei ebraici, di pari eresia linguistica. Se la matrice formale di quello berlinese è la Stella di Davide, lo spunto per quello danese è la parola mitzwà, una buona azione. Documenta quattrocento anni di storia degli ebrei danesi e, nello stesso tempo, celebra un paese di Giusti che, consentendo agli ebrei di riparare nel 1943 nella neutrale Svezia durante l’occupazione nazista, ne ha garantito la sopravvivenza. Diversamente da quello di Berlino, che si affianca a una struttura esistente, il museo danese integra la preesistenza della Royal Boat House costruita dal re Cristiano IV alla fine del XVII secolo, trasformata successivamente in biblioteca reale e caratterizzata da una struttura voltata in mattoni.
L’intreccio tra la vecchia struttura della Royal Library e il nuovo e originale spazio espositivo crea un dialogo dinamico tra l’architettura del passato e quella del futuro – l’attualità del vecchio e la storicità del nuovo dichiara l’architetto.8 Come a Berlino, sono bandite linee rette, parallelismi, allineamenti e simmetrie: il percorso è labirintico, i muri inclinati, i pavimenti sbilenchi, le feritoie di luce squarciano pareti e pavimenti. Si esce dal museo letteralmente con il mal di mare, lo stesso sofferto dai clandestini in fuga su precarie barche da pesca, evocate dall’uso massiccio di legno di quercia e betulla.
Il Jewish Contemporary Museum di San Francisco riconverte invece la grande stazione elettrica di Jessie Street, aperta nel 1907, che consentì alla città di tornare a vivere dopo il terremoto devastante dell’anno precedente.
Lo spunto progettuale è questa volta la frase ebraica l’chaim, alla vita, in particolare le due lettere chet e iod che danno forma ai due blocchi capovolti della nuova ala. L’entrata al museo coincide con quella grandiosa della stazione elettrica. Il piano terra, che ospita i servizi, offre la visione drammatica dei lucernai della stazione e dell’ala sud dove ha inizio il percorso museale. Se gli spazi del nuovo museo si intrecciano continuamente con quelli della centrale, le attività espositive, teatrali e didattiche si integrano e avvicendano.
Yad Vashem, infine, il monumento nazionale alla Shoà, una grande opera in progress dove, dal 1953, sempre nuovi episodi si aggiungono a quelli esistenti, secondo la stessa idea di non-finito che sottende l’Israel Museum di Gerusalemme.
L’ultimo è a firma di Moshe Safdie, l’architetto israeliano conosciuto internazionalmente per l’Habitat di Montreal del 1967, un grappolo di cellule abitative cubiche potenzialmente aggregabili all’infinito.
Una stecca di cemento a sezione triangolare taglia la collina rispettandone la conformazione orografica. È un segno architettonico prepotente che non deturpa però né incombe sulla natura. Invisibile nel tratto centrale, ipogeico, riemerge con forza all’estremità aprendosi come una bocca spalancata verso la vallata. Come dire che la storia drammatica narrata nel museo trova il suo sbocco, la sua apertura nella terra di Israele. Come per Libeskind, anche per Safdie la forma dell’edificio ha una forte componente simbolica. Se, a livello del terreno, percorsi pedonali lo attraversano consentendo allo stesso tempo la visione dall’alto e il collegamento con gli altri episodi museali, all’interno, ai lati della stecca ipogeica illuminata da un lucernario lungo 180 metri, si distribuiscono le sale espositive orbe di luce naturale. Vere e proprie trincee a zig-zag le collegano in modo impervio, vietando ogni visione frontale. La straordinaria documentazione si conclude nella Sala dei Nomi, a forma tronco-conica: la metà superiore, emergente, tappezzata di seicento fotografie e testimonianze delle vittime che hanno un «nome» e un «luogo», la metà sommersa destinata agli ignoti, che hanno ora almeno un luogo. Dalla rampa di uscita, una passerella collega il museo allo sconvolgente Monumento alla deportazione, progettato dallo stesso Safdie nel 1995. Un muro lungo oltre 60 metri è interrotto da un ponte ferroviario – riproduzione di uno esistente in Polonia – troncato da un’esplosione: su di esso procede un vagone, in bilico sul vuoto della vallata.
L’Israel Museum, sobrio e discreto, il museo ebraico di Berlino, espressivo e nevrotico, quello della Shoà a Yad Vashem, la cui forma esalta la continuità tra la Shoà e lo Stato di Israele: non architetture ebraiche ma architetture certamente progettate con attitudine ebraica. Quella di Mansfeld, prudente e responsabile, adotta il linguaggio universale della geometria; priva di guizzi individualistici e narcisistici, è spazialmente neutrale e dunque ospitale. Agli antipodi, quella di Libeskind, di Safdie, ma anche di Frank Gehry e di Zaha Hadid, dettate da un individualismo esasperato, insofferente a regole, codici, simmetrie, stasi e rassicurazioni. Edifici che generano disagio e inquietudine, che svolgono già attraverso la forma e la struttura la loro missione e funzione. Fortemente protagonisti, sono inospitali e restii a compromessi con i loro destinatari, le opere e le collezioni.
Tra le due attitudini si può dire corra la stessa differenza che passa tra l’astensione di un campo cromatico di Mark Rothko e il dramma delle carni martoriate di Soutine.
Al cospetto della seconda attitudine, sorge spontanea la domanda: non sarebbe meglio se quegli straordinari involucri rimanessero vuoti? Non sarebbe il loro silenzio tanto più eloquente? In qualità di architetto e di storica dell’arte, mi sento di rispondere negativamente: il cimento tra opera e luogo è sempre vitale per entrambi. Certo, avendo avuto la fortuna di vedere il museo di Berlino appena finito, dunque vuoto e, a distanza di tempo, allestito con la collezione permanente, devo parteggiare per i fautori del vuoto: l’affollamento eccessivo della collezione ne rende ardua la comunicazione e, soprattutto, uccide l’architettura. Eppure, anche in quegli spazi difficili e labirintici è possibile ambientare lavori che non ne ledano l’integrità. Penso ad esempio a quello dell’artista tedesco Arnold Dreyblatt quando, sulla selva di travi che tagliano obliquamente il vano scala, proietta i nomi tratti dal Who’s Who in Central & East Europe 1933: un dizionario biografico con 10.000 voci, di ecclesiastici, diplomatici, impiegati, tecnici, educatori, militari, industriali, giornalisti, pittori, scultori, scrittori, di varia provenienza, dall’Albania all’Estonia, dalla Turchia alla Finlandia alla Grecia, dall’Austria alla Lituania a Danzica, tutti inghiottiti dalla storia. Pubblicato nel 1934 a Zurigo, racconta un mondo praticamente scomparso. Dopo averlo scoperto per caso nel 1985, Dreyblatt lo reinventa e rivitalizza attraverso la partecipazione attiva del pubblico. Seleziona 765 voci con le quali costruisce un «ipertesto», un nuovo Who’s Who, in ordine alfabetico come l’originale, ma tematico. I nomi abbandonano l’univocità della pagina per divenire architetture reali o virtuali, consultabili al computer, proiettate su schermi di dimensione ambientale o, come a Berlino, direttamente sull’architettura. «La memoria non è solo questione di tempo», spiega Dreyblatt, «ma anche di spazio per il ricordo e l’archivio. I testi sono anche immagini, oggetti, informazione».9 Al Jewish Museum di New York, invece, Dreyblatt proietta quei testi su una griglia di filo metallico, sospesa in uno spazio completamente buio, che si avvolge su se stessa a costruire un enorme rotolo.
Il pubblico partecipa alla ricerca, effettuata da due computer, di parole e nomi sul database che, una volta identificate, sono lette ad alta voce. Il lavoro è di grande impatto visivo ed emotivo: il «documento» diventa «monumento», ma immateriale e mutevole, un vuoto animato da testi e voci. Lo stesso lavoro ma adattato al luogo è stato esposto nella prima edizione di Arteinmemoria nel sito archeologico di Ostia Antica, nello spazio sottostante il Campidoglio.
Questo excursus attraverso tipologie esemplari di musei ebraici, che potrebbe estendersi alla messe di musei e memoriali dedicati alla Shoà, conferma, se ce ne fosse bisogno, la centralità del luogo nella configurazione di una collezione o nella programmazione di un’attività espositiva, performativa e didattica. Un museo ebraico, sia che alloggi in uno spazio ebraicamente connotato come una sinagoga sia in uno spazio anonimo sia in uno spazio moderno e architettonicamente connotato, non potrà mai essere un contenitore neutrale. Qualsiasi opera d’arte, anche progettata altrove, acquista, per il solo fatto di essere lì, significati inediti e offre chiavi di lettura inaspettate. L’ho verificato personalmente, invitando artisti contemporanei a creare un lavoro originale nella antichissima Sinagoga di Ostia Antica in occasione della biennale Arteinmemoria.
E il MEIS di Ferrara non farà eccezione. Il luogo è fortemente caratterizzato e tale da stimolare gli artisti a pensare lavori originali, anche prima che la ristrutturazione sia ultimata, a cantiere ancora aperto: il fossato, le mura, gli spazi aperti sono tutti ottimi candidati. Il fatto poi di partire quasi da zero, se rende certamente il compito più arduo, lungo e dispendioso, consente una programmazione originale. L’Italia ha pochissimi musei di arte contemporanea degni di questo nome, alcuni dei quali, come il Castello di Rivoli e il Mart di Rovereto, non lontano da Ferrara. Sarebbe bello se il nuovo museo ebraico, e più in generale ogni museo ebraico, oltre a ospitare la collezione permanente, assumesse un ruolo di punta anche come museo di arte contemporanea, parte di un circuito internazionale in grado di ospitare e di esportare importanti e significative esposizioni itineranti.
Penso ad esempio alla grande mostra Personnes di Christian Boltanski realizzata per il Grand Palais di Parigi e approdata, come prima tappa di un tour europeo, alla Bicocca di Milano. Penso anche a una mostra di dimensioni contenute ma estremamente interessante e commovente ospitata un paio di anni fa dal Museum of Jewish Heritage di New York: From Swastika to Jim Crow: Refugee Scholars at Black Collages. Racconta la storia dell’incontro tra due comunità legate da un comune destino di oppressione e persecuzione: gli studiosi ebrei costretti a fuggire dalla Germania e dall’Austria e assunti con importanti posizioni accademiche nelle università riservate agli afroamericani nel sud degli Stati Uniti. Una lezione preziosa sul ruolo che gli ebrei possono e devono svolgere oggi in una società come quella italiana sempre più pericolosamente razzista e indifferente ai valori etici e culturali.
Penso ancora al progetto «pietre d’inciampo» dell’artista tedesco Günter Demnig, realizzato per la prima volta in Italia a Roma in occasione della Giornata della Memoria del 2010, e le cui prime pietre sono state installate a via della Reginella, nell’antico ghetto, a due passi dal museo ebraico. A Ferrara proponevo che davanti al carcere di via Frangipane, futuro MEIS, fossero collocate quattro pietre in memoria di altrettanti antifascisti da lì prelevati e uccisi per rappresaglia nel 1943.
In occasione di un convegno organizzato recentemente a Roma dal Gruppo Martin Buber sul tema del pluralismo nella società e della pluralità nell’ebraismo, il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, prendendo atto della congiuntura favorevole di cui gode oggi l’ebraismo, in termini di attenzione e aspettative, si interrogava non senza inquietudine sul che fare per non disattenderle. Immagino che lo stesso interrogativo disturbi il sonno dei responsabili del museo ebraico di Ferrara e, spero, di quelli che dovranno succedere alla direzione intelligente, colta e lungimirante di Daniela di Castro al Museo ebraico di Roma. Perché un museo ebraico deve essere in primo luogo una fucina di cultura.
1 H . Rosenberg, Is There a Jewish Art?, discorso tenuto al Jewish Museum di New York nel luglio 1966, in <http://www.commentarymagazine.com/viewarticle.cfm/isthere-a-jewish-art—4222>.
2 Ibid.
3 Ibid.
4 S. Hunter, citato in M. Israel, Museums. A Magnet for the With-It Kids, «Art in America» (October 2007), p. 79.
5 N. Elcott, Jewish Modern Art. From Abstract Expressionism to Feminism, in My Jewish Learning, <http://www.myjewishlearning.com/culture/2/Art/History_and_Theory/Jewish_Art_History/Medieval_and_Modern/Modern_to_Postmodern.shtml>.
6 D. Libeskind, Between the Lines, in P. Noever (ed.), Architecture in Transition. Between Deconstruction and New Modernism, Munich, Prestel 1991, p. 65.
7 D. Libeskind, cit. in A. Marotta, Il Museo Giudaico a Berlino, oltre le coordinate cartesiane, «L’architettura – cronache e storia» 552 (ottobre 2001), p. 608.
8 D. Libeskind, in <http://www.daniel-libeskind.com/projects/show-all/danish-jewish-museum>.
9 A . Dreyblatt, “T”: Files from the Great and Small Archives, 1994-1996, in Arnold Dreyblatt: Selected installations, dossier inedito sull’artista.