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L’insegnamento storico come atto critico

pubblicato in: V. Rosa (a cura di), “L’insegnamento storico come atto critico”, in Per l’arte con gli artisti. Atti del convegno in onore di Jole de Sanna (Milano, 13 aprile 2005), Milano, pp. 12-17.

Ho conosciuto Jole de Sanna qui a Brera, dove, trasferita da Bologna, dovevo essere assegnata a una cattedra di Storia dell’Arte. Contatti preliminari, sondaggi, indiscrezioni mi mettevano in guardia sulla peggior disgrazia che mi sarebbe potuta capitare: diventare l’assistente della professoressa Jole de Sanna, con la quale nessuno dei predecessori era andato d’accordo. Intollerante, intransigente, criticamente orientata: questi i difetti più vistosi. Fui naturalmente assegnata alla cattedra della professoressa de Sanna ma, nonostante le fosche previsioni, o, forse, grazie a esse, tra noi fu subito intesa, complicità, stima e amicizia. Jole mi aprì la sua casa, mi accolse nella sua famiglia, condivise conoscenze e amicizie ma, soprattutto, mi  prospettò inediti orizzonti di lavoro. Era il 1984: in Italia e nel mondo imperversava il flagello postmoderno, con i suoi corollari neo-classicisti, citazionisti, anacronisti. Che fosse un attacco concertato tra istituzioni, critica e mercato contro la libertà e poliedricità delle ricerche precedenti, per un ritorno nell’alveo rassicurante della tradizione e del vernacolo, non vi era alcun dubbio. Il sodalizio con Jole nacque su questa identità di giudizio e, più importante, sulla necessità di coinvolgerne l’attività didattica denunciando, senza obiettività, ammiccamenti e tentennamenti, il carattere reazionario e passatista di una operazione che, in nome della storia, riduceva la stessa a terra di conquista. Si trattava di ribadire, in termini metodologici, la coincidenza tra giudizio critico e giudizio storico: o l’insegnamento della  storia dell’arte è in grado di fornire un orientamento critico nel e per il presente, oppure si riduce a mero nozionismo, sfilata di  movimenti, poetiche, artisti, incapace di interagire con la realtà. Ci accomunava dunque l’idea di un insegnamento critico, mirato, teso a recuperare l’intera prospettiva del passato in funzione dei compiti contemporanei; aperto e problematico, ricettivo di apporti multidisciplinari,  in grado di rileggere e sottrarre all’oblio poetiche e maestri, di suggerire con spregiudicatezza critica ma con rigore metodologico e storiografico, nessi, paternità, influenze. Non inventavamo niente: ci limitavamo semplicemente ad adottare una lettura storico-critica inaugurata dalla scuola di Vienna e adottata dai grandi storici dell’arte del secolo scorso, da Lionello Venturi a Giulio Carlo Argan a Cesare Brandi. Quando quest’ultimo asserisce che “ogni espressione artistica è contemporanea” e che “ogni opera d’arte ha una dignità antica”; o quando Argan sostiene, che “quale che sia la sua antichità, l’opera d’arte si dà sempre come qualcosa che accade nel presente”, non fanno che ribadire il nesso imprescindibile tra storia e attualità. Il nostro primo corso fu sullo spazio prospettico: a partire dalla teorizzazione brunelleschiana, ma per rintracciare negli artisti e nelle opere non canoni e regole ma deroghe ed eresie: Brunelleschi anticlassico, allora, Piero della Francesca “neoplastico”, nell’interpretazione audace e stimolante di Eugenio Battisti, Palladio “impressionista”, in quella altrettanto coraggiosa di Argan e così via, fino a oggi, a “Paolo Uccello 1450-1989” di Luciano Fabro, le cui due date sono appunto quelle degli affreschi quattrocenteschi in Santa Maria Novella e dell’esposizione dell’opera di Fabro a Rivoli, e “Trionfo della rappresentazione” di Giulio Paolini, dove l’artificio prospettico è esposto ma inoffensivo, inabile a rappresentare. Invitammo i due artisti a discuterne, insieme agli storici dell’arte Paolo Fossati e Marisa Dalai Emiliani, e a scienziati come Giuseppe Caglioti. Non sapevo allora – Jole era molto segreta e riservata sui suoi studi – che stesse ultimando il libro su Medardo Rosso, il cui titolo è proprio “Medardo Rosso o la creazione dello spazio moderno” e che lo spazio fosse il suo terreno d’indagine privilegiato. La tesi del libro è esplicita sin dall’introduzione: “Medardo è il fautore e teorico di un inedito assetto spaziale che interessa tutta l’arte successiva, anche al limite e al di là delle definizioni tradizionali di scultura e pittura”. Indagando l’evoluzione del concetto di spazio in ambito matematico e scientifico, verificandone l’applicabilità alle opere certe di Medardo, analizzando il contesto storico-artistico in Francia e in Italia, gli scritti eretici dell’ artista e persino la sua attività di sobillatore anti-accademico, qui a Brera, de Sanna opera una decisa revisione storiografica: sottratto alla Scapigliatura e all’Impressionismo, Medardo diviene il progenitore dello spazio moderno. Non a conclusione, dunque, della parabola dello spazio prospettico classico, gerarchicamente inteso, ma ad apertura di quello dinamico e temporalizzato che attribuisce pari valore al pieno e al vuoto, al corpo e all’aria, e che, anziché isolare, fonde l’opera nell’ambiente. Non figlio dell’Impressionismo, dunque, ma padre  del cubismo, astrattismo, futurismo, spazialismo, persino dell’informale.  Ma Medardo non è per de Sanna un punto di partenza: vi approda infatti attraverso l’indagine sulla scultura contemporanea in occasione della mostra “Aptico” del ’76 a Pallanza, curata con Luciano Fabro, Hidetoshi Nagasawa e Antonio Trotta. «Forse preavvertendo l’abbandono della spinta ideale delle avanguardie e la caduta nel puro e semplice esercizio della pittura, del disegno, della scultura, promuovemmo nel 1976 “Aptico il senso della scultura”, ricordano a posteriori. Già in opposizione, dunque, all’onda montante. In catalogo, dove si alternano dialoghi tra i curatori, citazioni, illustrazioni, pensieri, troviamo una definizione di scultura  come indicazione metodologica: “Immagine che un artefice suscita nella materia secondo fini e modi ispirati dalla sua idea e senso. La scultura tiene chi la vede per l’intelletto e la carne: questa unione forma un senso ulteriore, il senso aptico, il senso della scultura”. La compagnia di “Aptico” è nutrita e sostanziosa: Bernini, Canova, Gemito, Rosso, Brancusi, Fontana, Melotti, “casi isolati ma esemplificativi di artisti che ci sono più o meno coetanei”, tutti contemporanei, dunque, a prescindere dall’epoca di appartenenza. Alcuni di loro saranno oggetto di studi monografici successivi di de Sanna, come Rosso, Fontana, Fabro, Nagasawa. Una genealogia, quest’ultima, nient’affatto casuale, che ritroveremo quattro anni dopo in “Breve storia dell’arte italiana, dalla fine del XIX secolo al 1980”. Triplice l’osservatorio per il materiale d’indagine: quello prettamente storico, secondo il quale eventi, movimenti, artisti si snodano cronologicamente lungo una linea; quello delle influenze, positive e negative, al di sotto della linea; quello di  artisti e  opere, pochi,  che spiccano e si ergono sulla storia per orientarla attraverso una rivoluzione del linguaggio visivo. E’ in quest’ultima postazione che  incontriamo come capostipite Medardo Rosso, seguito a ruota dal futurismo, il “primo gruppo di avanguardia nella storia dell’arte europea”, rappresentato da Marinetti e da Balla. Con de Chirico, sia in versione metafisica sia in quella “classica” dell'”Autoritratto”, si conclude la prima metà del XX secolo. Nessuna indulgenza per Novecento e l’arte di regime; troppo scarsa considerazione, a mio avviso,  per quelle sacche di resistenza modernista, dall’astrattismo all’architettura funzionalista, animate da figure di straordinaria statura etica e poetica, quali Edoardo Persico, Mario Pagano e Giuseppe Terragni, liquidate troppo sbrigativamente come ripetitive e “tra le maglie del regime”. Il dopoguerra si apre con la figura colossale di Fontana, cui de Sanna dedicherà nel ’93 una accurata monografia. Aggiornando sia la lezione di Medardo sia quella futurista, Fontana rompe con l’arte rappresentativa per additare lo spazio reale  come nuovo campo di esplorazione. Nell’invocare un’arte maggiore come superamento delle arti, non come sintesi delle stesse, Fontana aggiorna e risponde al quesito di Medardo: “Pittura? Scultura? Non c’è che un’arte, sempre identica e indivisibile…Velazquez, Rembrandt, non hanno trattato le loro tele come se fossero d’argilla?” Se spazialisti e nucleari colgono solo la pelle della rivoluzione di Fontana, è quest’ultimo a nominare i suoi eredi: l’azzeramento monocromo di Castellani, Manzoni e  Klein, il superamento del  quadro nella linea all’infinito di Manzoni e nel salto nel vuoto di Klein. Come  Medardo rispetto all’impressionismo, anche Fontana è sottratto alla compagine astratta e informale per guidare e orientare l’arte italiana della seconda metà del secolo. Così, bypassando fenomeni coevi quali new-dada, pop  e arte programmata, de Sanna mette in contatto, per il tramite di Manzoni, Fontana con Paolini, Merz, Kounellis e Fabro, protagonisti di quell’arte povera che non esita a definire “il solo movimento italiano dopo il futurismo”. La generazione che agisce nello spazio che Fontana si è limitato ad additare. Dal ’77, però, avverte de Sanna, “l’eclettismo rioccupa il campo, vedi anni venti, vedi anni trenta”: la linea non  procede oltre ma inverte la rotta e retrocede all’eclettismo dell’arte di regime, al punto da cui abbiamo preso l’abbrivio.

Vale chiedersi: una metodologia storico-critica siffatta, nomade tra storia e attualità, quale spazio trova nel vecchio ordinamento dell’Accademia di Belle Arti, e quale le è riservato dalla riforma in via di sperimentazione? Secondo il vecchio ordinamento, è noto, la storia dell’arte, obbligatoria per le quattro annualità e per qualsivoglia dei 4 indirizzi, era impartita secondo le leggi ferree del manuale e si attestava alle soglie del ‘900. Nominati per  chiara fama, i docenti passavano spesso e volentieri la mano agli assistenti, ai quali era richiesto invece il titolo di studio, riservando a sé un corso monografico. Senza riscontro nell’attualità,  la storia, ridotta a sequenza di poetiche e stili, risultava ostica, noiosa, inutile, avulsa dalle ragioni per le quali gli studenti avevano scelto di iscriversi all’accademia. L’istituzione dei corsi speciali, tra cui arte contemporanea, attribuisce finalmente a quest’ultima una dignità didattica, mentre i concorsi a cattedra consentono l’ingresso in accademia di forze nuove, spesso attive come critici o curatori. Ma nessuna delle due soluzioni garantisce nulla sul piano dell’osmosi tra storia e attualità:  esse continuano a procedere separate dal fossato scavato proprio dalle avanguardie storiche quando hanno malauguratamente reciso ogni legame con la storia. Da questo punto di vista, la riforma non risolve nulla: ripropone infatti lo squilibrio tra storia dell’arte e arte contemporanea, presente nel vecchio ordinamento, ma a svantaggio della storia. Nella proliferazione e parcellizzazione di materie, moduli e crediti finalizzati a sbocchi professionali cosiddetti creativi, nell’obbligatorietà che sembra stabilita per la sola arte contemporanea, e per due annualità, la storia dell’arte e più in generale l’intera cultura umanistica risultano pesantemente erose e marginalizzate, mentre dietro l’apparente vitalità e libertà dei piani di studio, e ricchezza dell’offerta, è in atto un processo di profonda deculturalizzazione. Non solo. Non è chiaro, infatti, o perlomeno non a me, quale interazione la riforma preveda tra le materie teoriche e i laboratori. Questi ultimi, infatti, peculiarità e ricchezza delle accademie, offrono una straordinaria opportunità di sinergia tra indagine storica e pratica artistica. La stessa propugnata da Argan quando afferma che “lo studio della storia è una verifica necessaria dell’operazione pittorica nel corso dell’operazione stessa”, la stessa, a ben vedere, che anima “Aptico”. Nel vecchio ordinamento, per la verità, le cattedre di storia dell’arte erano abbinate alle scuole, ma in un modo esclusivamente burocratico, finalizzato a una equa distribuzione degli studenti, in una sorta di matrimonio forzato che toglieva agli studenti la libertà di scegliere entrambi i docenti. Le due attività erano comunque disgiunte, al punto che spesso a una considerevole capacità di scrittura e elaborazione teorica corrispondeva una pratica artistica del tutto tradizionale. Jole de Sanna e Luciano Fabro, dall’83 docente in questa accademia, hanno colto invece questa  enorme potenzialità e deciso  di lavorare insieme, con gli stessi studenti. In quella fucina, se la storia indicava all’arte una metodologia critica matura, l’arte illuminava la storia per scegliere e sviluppare le sue angolazioni interpretative. C’è di più. Come in altre scuole pilota-penso all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia ai tempi di Giuseppe Samonà- il sodalizio docenti-studenti si prolungava oltre i confini della scuola, ad esempio nella Casa degli Artisti in via Garibaldi, aperta nel 1978, a debita distanza dall’onda montante del revival storicistico.  «Etico è lo sguardo filologico verso le opere che precedono: lo sguardo filologico è attitudine dell’artista come antidoto al disimpegno della citazione […]. Non si possono adoperare le cose come “si sente”, ma come si deve e si può. Questo è poter trattare la realtà come invenzione: a una generazione di immagini ne succede una nuova». Firmato dal nucleo fondatore, di cui alcuni esponenti come Mariella Ghirardani e Luisa Protti sono qui oggi, il manifesto, redatto sei anni dopo la nascita della Casa, ne riepiloga i capisaldi: contro la citazione disimpegnata, contro un’arte di pura fantasia e immaginazione, la filologia è uno sguardo approfondito, serio e impegnato sulla realtà, non per restituircela pedissequamente ma per carpirne l’essenza e aggiornarla con  linguaggio rinnovato e dissonante. “La storia ci appartiene e il nostro compito è mantenerla viva e trasmetterla di generazione in generazione”: ecco il punto intorno a cui continuiamo a girare, ecco ciò che distingue la generazione di Fabro, Kounellis e Paolini, dalle poetiche coeve. Il confronto dialettico e angosciato con la storia è infatti la carta d’identità europea di una generazione cresciuta nel dopoguerra di un paese sconfitto. Quando Kounellis ripete insistentemente “ricerco, in frammenti (emotivi e formali), la storia dispersa. Ricerco in modo drammatico l’unità, seppure difficile a cogliere, seppure utopica, seppure impossibile e, perciò, drammatica” o quando rivendica “la centralità di un testo umanista in una società che predilige la serialità e che ha tradotto l’idea della storia in un dato strettamente metrico”, ribadisce la distanza abissale dalla serialità pop e minimalista e dall’afasia concettuale. La stessa espressa da Argan quando contrappone “una concezione dell’arte come valore, che può essere riconosciuto e acquisito solo attraverso l’interpretazione e il giudizio, e una concezione dell’arte come mero fenomeno, che può dar luogo soltanto a una descrizione scientifica”.

Questa idea della storia come metodologia per l’azione artistica guida gli artisti della Casa quando, nel ciclo “Filologiae” del 1982, aggiornano  con le loro opere l’indagine strutturale della sagrestia di Santa Maria delle Grazie a Milano. «Il lavoro intellettuale nasce su ciò che si fa […] poi da quello che si viene a sapere su quello che si fa, si vedono tutte le cose contigue che possono avere relazione con la cosa che si è saputa da quello che si fa […] è un movimento a spirale che ha sempre come centro quello che si fa, e questo dà garanzia, sicurezza, serenità», spiega Fabro, ribadendo il nesso teoria-prassi rivendicato da “Aptico”. Tale osmosi trova nella Casa molteplici punti di applicazione: se le pubblicazioni “Per l’arte”, raccolgono dialoghi e discussioni fra giovani artisti e maestri, tutti sono impegnati  nel restauro dello stabile, nell’attività di “Cantiere”, cioé nell’allestimento di  mostre e, dal 1990, nel «Servizio civile per l’arte» che, come un vero servizio civile, interviene tempestivamente per preservare l’arte, l’attitudine all’arte, l’idea stessa di arte. Un’attività che ha impegnato e appassionato Jole fino alla fine, soprattutto nella battaglia per il restauro della “Fontana dei Bagni Misteriosi” d MGiorgio De Chirico a parco Sempione.

Ora che Jole ci ha lasciato, c’è  da augurarsi  che l’attività della Casa continui anche senza il suo prezioso contributo. Perché la situazione che viviamo oggi è più grave, insidiosa e pericolosa di quella di cui abbiamo discorso. Allora, mi riferisco agli anni Ottanta,  almeno, le posizioni erano chiare, le contrapposizioni nette e conclamate, il confronto schietto e leale; era possibile capire, scegliere, schierarsi. Oggi, omologazione e revisionismo occupano il campo. Con il trascorrere del tempo e l’allontanarsi degli eventi, dietro l’alibi di una globalizzazione che pretenderebbe di abolire i confini e risolvere le disuguaglianze, è in atto un tentativo di pacificazione che mira a sfumare, appiattire e livellare differenze poetiche, appartenenze ideologiche, battaglie identitarie, riducendo il dibattito culturale a una miserevole rincorsa al consenso, complici le strategie comunicative. Per essere plausibile, l’operazione necessita di una revisione e  riscrittura della storia; esattamente quanto sta accadendo per la relazione tra arte povera e Transavanguardia. Dopo averla pressoché ignorata per decenni, gli americani ospitano nel 2001, in seconda battuta dopo la Tate Modern di Londra, la mostra itinerante “Zero to Infinity: Arte povera 1962-72”. Assente il mentore storico, emarginati gli artisti, la storia tracciata nei testi in catalogo è distorta e piegata a tesi critiche preconcette. Con l’obiettivo di: svilirne la portata rivoluzionaria; stabilire la preminenza dei fenomeni americani coevi, liquidarne i caratteri precipui e originali come provinciali e nazionalisti, persino, come nel delirio di Francesco Bonami, sostenere che, quando nel 1984-’85 Celant  cerca di risvegliare lo “spirito a lungo dormiente” dell’ arte povera , quello che le mostre “ironicamente rivelano è che gli artisti sono stati investiti dall’esplosione della transavanguardia”. Una tesi di cui è facilmente documentabile la falsità, ma sulla quale concorda la controparte. Nella mostra dedicata alla Transavanguardia dal Castello di Rivoli nel 2003 si sostiene infatti  che non di  reazione contro le avanguardie si è trattato, ma piuttosto di un rifiuto di feticizzare e di ideologizzare il nuovo, per concludere: “nessun ritorno all’ordine, se si dà a questo termine un valore ideologico, ma una meditata per quanto non canonica rivalutazione degli strumenti tradizionali”. Mentre dallo stesso catalogo si apprende che: ” in effetti, nonostante tutte le teorie postmoderniste pubblicate dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, si potrebbe sostenere che il Postmodernismo non esista affatto come periodo culturale a sé stante. Con il passare del tempo, esso appare sempre più come una particolare declinazione del Modernismo. Non tutto il Modernismo, infatti, fu razionalistico e progettuale!”. Così, negli ultimi due anni, abbiamo assistito a un rilancio su larga scala dei protagonisti della Transavanguardia, spesso a braccetto con i loro antagonisti, accomunati dall’essere “i principali movimenti italiani degli anni Settanta”. Con lo stesso spirito, si sta rivalutando il peggior ciarpame fascista, come il quartiere E42 Eur a Roma, accomunando il Colosseo Quadrato, l’esedra, e altre sinistre realizzazioni del Ventennio al Palazzo dei Congressi di Libera al Palazzo dello Sport di Nervi all’Edificio delle Poste dei BBPR. Verrebbe quasi da sorridere se non fosse che in tale processo revisionistico non è travolta solo la storia dell’arte ma la nostra  stessa storia, quando si  equiparano fascismo e antifascismo, Shoà e foibe, Giorno della Memoria e Giornata del Ricordo, partigiani e repubblichini.

Occorre reagire, e al più presto, scuotersi dall’astenia e  dal torpore intellettuale che ci circonda, riaffilare le armi della critica, rifonderle con la storia, per ristabilire la verità dei fatti, rivendicare il diritto alla differenza, costruire una vera opposizione, a fianco del coraggioso manipolo di storici che, senza nascondersi verità anche scomode, cercano disperatamente di spiegare e distinguere.

In questo arduo compito, ci mancheranno la serietà, il coraggio e la generosità di Jole de Sanna, il suo contributo di studiosa anticonformista e disinteressata. Se, come la storia, la memoria ha valore solo come monito per il presente, che questa giornata di studi in suo nome, per la quale ringraziamo infinitamente Walter Rosa e quanti l’hanno organizzata, possa stimolarci e orientarci. Adoperiamoci perché il patrimonio dei suoi studi e della sua collezione non vada disperso ma sia riunito in un luogo, magari la sua amata casa di Massafra, per essere godibile da tutti. E’ l’unica possibilità che abbiamo per trasformare questa  perdita in valore.