in S, Reichel, A. Spagnoletto (a cura di) Sotto lo stesso cielo. La festa di Sukkot, Silvana Editoriale, 2022
La sukkah può rappresentare la quintessenza dello spazio ebraico? Quale lezione la sua struttura precaria e temporanea offre agli architetti contemporanei? Con quale modalità evoca eventi storici occorsi migliaia di anni fa al popolo d’Israele? Sono alcuni interrogativi cruciali sollevati dalla festa delle Capanne e che meriterebbero ben altro tempo e altro spazio.
Colpisce innanzitutto, nelle descrizioni e nelle prescrizioni sulla costruzione della sukkah, la dicotomia tra regole e deroghe, tra l’estrema libertà lasciata al singolo e la severità, puntigliosità e astrusità delle limitazioni: le dimensioni, massime e minime, i materiali e la loro disposizione, l’arredo, le modalità di costruzione e di fruizione. La libertà, intanto, non è una scelta ma un dovere: ognuno deve improvvisarsi costruttore ed erigere con le sue possibilità e la sua creatività l’habitat nel quale dimorerà giorno e notte per una settimana, in condizioni climatiche anche avverse purchè compatibili con la salute. Anche il novero dei luoghi nei quali erigerla è quanto mai ampio: non solo terrazzi, giardini, cortili, vani scala ma anche il tetto di un carro o il punto più alto di una barca, un albero e persino il dorso di un cammello. Purché ligia alle regole e funzionale allo scopo, la sukkah è in assoluto, al pari della tenda della quale è sinonimo, l’habitat più adattabile a qualunque contesto.
Trascurando le dimensioni, il numero e la natura delle pareti, ci concentriamo sulla complessità della copertura, lo s’khakh, la cui radice è la stessa della parola sukkah, samech, kaf, kaf. Deve lasciar vedere il cielo e le stelle, far passare la pioggia, lasciar filtrare la luce diurna ma in proporzione minore dell’ombra. Si usano materiali vegetali, purché preventivamente recisi; non devono essere lavorati, perché ciò li renderebbe atti a ricevere impurità. Inoltre, qualsiasi ancoraggio a terra ne comprometterebbe la precarietà. Inutilizzabili i rami che seccano velocemente e che ridurrebbero il volume di ombra. Analogamente, si possono usare assi di legno purché larghe meno di 10 cm in modo da non confondersi con un vero tetto. Sull’elogio dell’ombra “ornamento fragile ed effimero” insiste l’architetto Antoine Grumbach, considerandola un aspetto chiave dell’architettura di tutti i tempi. “Dalla tradizione giapponese ai templi greci e alle cattedrali, le architetture sono state progettate come trappole luminose… L’ombra come esperienza della presenza divina è forte e solida nella tradizione cristiana, fugace e fragile tra gli Ebrei. Il risultato, ovviamente, è una relazione con lo spazio che favorisce il temporaneo piuttosto che il permanente”. E’ doveroso ornare la sukkah con festosità ed eleganza, con frutta, verdura, fiori, candele e utensili organici (terra cruda, pietra, marmo), purché autonomi dalla struttura. Se, sappiamo, Sukkoth ricorda due eventi, uno storico e l’altro naturale, uno legato a un tempo preciso seppur estremamente dilatato, l’altro al tempo ciclico delle stagioni e del raccolto, la sukkah li compendia ma li distanzia, in una interessante e originale compresenza di prossimità e distanza. “Sukkoth è l’unica mitzvah, oltre allo Shabbath, il cui scopo è ‘sapere’”. Sapere cosa? “…Abiterete in capanne per sette giorni… affinché le vostre generazioni sappiano che io feci abitare in capanne i figli d’Israele, quando li feci uscire dalla terra d’Egitto (Levitico 23:42-43). Anche Sukkoth dunque ha a che vedere con l’uscita dall’Egitto ma, a differenza di Pesach, che ricorda l’evento in un giorno preciso (15 nissan), Sukkoth celebra il dopo che “li feci uscire dalla Terra d’Egitto”, il tempo lungo del peregrinare fino alla Terra Promessa, un percorso a conclusione del quale il popolo d’Israele da schiavo diviene libero, da nomade stanziale, da bisognoso di miracoli a osservante di precetti. È proprio questo carattere transitorio e propedeutico ad esigere un habitat il più agile, precario e mobile possibile. Dimorare una settimana l’anno nella sukkah, oggi che viviamo in case belle e confortevoli, ci ricorda che non è sempre stato così; non bisogna inorgoglirsi ma essere modesti, semplici e sobri, insicuri e bisognosi di protezione. Nel momento di maggior ricchezza e felicità dell’anno, quello dell’avvenuto pentimento, del perdono e del raccolto, dobbiamo ricordare che se nel deserto il popolo ebraico era totalmente dipendente da Dio e dai suoi miracoli, anche oggi la natura è una sua creazione.
Come ricordare? Non relegando l’evento nel passato, non istituzionalizzandolo, ma rivivendolo come se accadesse a noi oggi. Se a Pesach ciò avviene attraverso il racconto della haggadah (“in ogni generazione dobbiamo sentirci come se noi stessi fossimo usciti dall’Egitto”), a Sukkoth, vivendo in un habitat a immagine e somiglianza di quelli di allora ma aggiornato e personalizzato da ognuno di noi, l’immedesimazione è più forte. Perché la memoria, come la sukkah, non può essere delegata ad altri o ad altro ma esige una elaborazione individuale. “La materia è un mezzo per un’identificazione esistenziale con la nostra storia”. Se le matzot ricordano la fretta della fuga, dunque un tempo estremamente contratto, la sukkah ci consente di provare fisicamente e simbolicamente cosa ha significato vivere 40 anni nel deserto. In tempi di ossessione memoriale e memorialistica, quell’habitat è un esemplare dispositivo di memoria. Non istituzionalizza il ricordo in un solo giorno, non lo delega a monumenti e memoriali, ma lo affida a una costruzione essenziale e precaria, a misura d’uomo, eretta con materiali naturali. Un esempio. Il memoriale-museo di Nonantola, vincitore al concorso internazionale “Davanti a Villa Emma”, a firma di Bianchini & Lusiardi Associati, si ispira alla sukkah: evoca infatti il rifugio temporaneo dei settantatré ragazzi ebrei in fuga da Germania, Austria e Croazia verso la Palestina. In tre modi: la rarefazione dell’involucro attraverso la trasparenza, dunque la simbiosi con il contesto; la copertura piana trasparente che consente la vista del cielo; il frangisole in legno che rimanda al motivo dei rami intrecciati e alla dialettica luce-ombra, infine. Oltre all’impiego di materiali ecosostenibili.
Vale chiedersi: Il modello di riparo temporaneo, precario, auto-costruito con materiali naturali e organici, spazialmente ricco e variegato, può costituire un modello alternativo al disastro ambientale, all’inquinamento globale, al consumo dei suoli, alla sperequazione sociale delle megalopoli contemporanee? Le esperienze che in modo proteiforme si moltiplicano in varie parti del mondo, soprattutto nelle zone sottosviluppate e socialmente svantaggiate, confermano l’ipotesi. Le definiamo “frugali” per una tangenza ulteriore con Sukkoth. “Frux”, infatti, “fruges” in declinazione plurale, da cui deriva “frugalis”, significa raccolto.
Quali le prerogative dell’architettura frugale che incoraggiano un confronto con la sukkah? Il rifiuto dell’anonimato e della serializzazione, dello spreco energetico e della scarsa qualità spaziale. Al loro posto, una specificità legata al fruitore e al sito, sistemi di costruzione tradizionali ma innovativi, risparmio energetico, utilizzo dei materiali naturali e della manodopera locali. Come per la sukkah, la frugalità non mortifica ma incoraggia la fantasia progettuale. La sukkah in realtà è la più frugale tra le architetture frugali: i materiali riciclati, infatti, di cui queste ultime fanno largo impiego, sono considerati impuri perché manipolati!
Alcuni tra i tanti esempi possibili. Ottimizzare la luce diurna, orientare le finestre secondo l’asse elioterapico, utilizzare essenze erboree locali per produrre una vaporizzazione naturale, raccogliere le acque piovane per l’irrigazione, impiegare i materiali e la manodopera locale, sono i capisaldi della architettura di Nina Maritz in Namibia. Nel 2018 progetta la Shipwreck Lodge, la casetta del naufragio: 20 unità ricettive, affacciate sull’oceano, dislocate lungo le dune di sabbia bianca. In legno, evocano nel design i resti delle oltre mille navi che si sono arenate su quell’insidioso tratto di costa atlantica, denominato non a caso “costa degli scheletri”.
Ai profughi e alle strutture destinate ad accoglierli pensa invece l’architetto Manuel Herz, attivo tra Basilea e Colonia. “Sono sempre stato interessato al tema delle migrazioni… Mentre questi spazi di rifugio sono generalmente visti come spazi di miseria, mi interessava l’ipotesi che i rifugiati se ne appropriassero come spazi di potenzialità sociale, politica, culturale ed economica”. Nel 2016 Herz è invitato da Alejandro Aravena alla biennale di Venezia “Reporting from the Front”, tesa ad allargare per la prima volta l’arco dei problemi attinenti all’architettura a quelli sociali, politici, economici e ambientali. Herz espone, in collaborazione con la National Union of Sahrawi Women, il Padiglione del Sahara Occidentale . Per la prima volta nella storia della Biennale un padiglione nazionale rappresenta un popolo la cui identità nazionale non è riconosciuta né geograficamente né politicamente. Ha l’aspetto di una grande tenda al cui interno sono esposti tappeti realizzati dalla National Union of Sahrawi Women e fotografie che documentano la realtà dei campi profughi dove la popolazione saharawi vive da quaranta anni.
Rappresentare i rifugiati con architetture vere, piuttosto che con soluzioni di emergenza, attribuisce ai campi lo status di ambienti spaziali modellati consapevolmente dai loro abitanti.
Il Pritzker Architecture Prize, il Nobel dell’architettura, è assegnato nel 2022 a Diébédo Francis Kéré, nato nel 1965 a Gando nel Burkina Faso. Dopo aver studiato in Germania, Kéré fonda un’associazione per sostenere lo sviluppo del suo paese. Nel 2001 realizza la prima scuola nel villaggio natale con l’aiuto della manodopera locale e l’impiego di blocchi di terra compressa per le parti portanti e, come tetto, lamiera ondulata sollevata su una capriata d’acciaio per garantire fresco e protezione dalla pioggia.
Concludiamo, in Italia, con il progetto Tecla – tecnologia e argilla – il primo prototipo di architettura ecosostenibile stampato in 3D progettato dallo studio Mario Cucinella Architetti e dai ragazzi del Master di SoS School of Sustainability e realizzato nel 2021 a Massa Lombarda. Un habitat circolare, auto portante, a doppia cupola: evoca una grotta, dunque un’architettura vernacolare; utilizza esclusivamente materiale locale, la terra cruda, in una miscela estremamente sofisticata, priva di additivi chimici, ed è reversibile. Anche l’arredo, dalla panca che asseconda la rotondità dell’involucro al tavolo con le sedie, è realizzato a stampa 3D. Lo scopo di Tecla è coniugare l’ecosostenibilità con lo sviluppo tecnologico: è la macchina, guidata da un disegno super dettagliato, a realizzare l’opera.
Confermiamo: temporaneo, frugale e agito sono attributi della sukkah, dello spazio ebraico e, auspicabilmente, dell’architettura contemporanea.