Vai al contenuto
Home » News » La sobrietà del bene

La sobrietà del bene

in AA.VV., La Rassegna Mensile di Israel, Vol. 86 – N. 2-3, maggio – dicembre 2020

La sobrietà del bene

Adachiara Zevi

 

Iniziamo dalla fine, anzi dal lieto fine. Domenica 31 marzo 2019, al teatro Troisi di Nonantola, alla presenza del Presidente e del Direttore della Fondazione Villa Emma, della Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, e dei membri della giuria, ha luogo la cerimonia di premiazione del concorso Davanti a Villa Emma.[1] A distanza di settantacinque anni dagli eventi, a quindici dalla costituzione della Fondazione, la storia dei settantatrè “ragazzi di Villa Emma” in fuga dal nazismo, salvati dai nonantolani e approdati in Palestina nel 1945, ha finalmente un suo luogo per la memoria. I contributi qui pubblicati sviscerano in profondità le ragioni dei ritardi, delle remore e delle reticenze, ma anche le tante attività culturali e politiche che hanno reso questo tempo un’occasione preziosa e necessaria di approfondimento.

 

Il concorso

Il concorso in due gradi, aperto a tutti, architetti e ingegneri, è bandito il 31 gennaio 2018 dalla Fondazione Villa Emma in collaborazione con il Comune di Nonantola e l’Ordine degli architetti di Modena: trentasette i partecipanti al primo grado. Tra questi, la giuria ne seleziona tre, resi noti il 23 marzo, mentre il vincitore è proclamato il 15 dicembre 2018. Tempi record, dunque, e giudizio unanime, due dati che non sempre vanno di pari passo. In occasione del concorso per il Vietnam Veterans Memorial a Washington, ad esempio, i tempi sono stati rapidissimi ma assai meno armoniosi: l’idea di un memoriale ai caduti americani di una guerra sbagliata risale al 1979, per iniziativa di un veterano, Jan Scruggs. Il concorso è bandito nel luglio dell’anno successivo. Dieci mesi dopo, esaminati 1432 elaborati, gli otto membri della giuria, architetti, architetti del paesaggio e scultori, proclamano vincitrice una giovanissima cino-americana di ventuno anni, Maya Lyn, ancora studentessa di architettura alla Yale University. Il memoriale inaugura nel novembre 1982; con l’appendice di un gruppo scultoreo tradizionale, pegno da pagare per la sua radicalità. Nonostante la modalità del concorso per i monumenti pubblici sia negli Stati Uniti facoltativa, nonostante ogni concorso debba passare al vaglio di tre diverse agenzie, nonostante l’alto numero di partecipanti, nonostante, infine, la guerra in Vietnam fosse ancora oggetto di rimozione pubblica, trascorrono solo ventotto mesi tra l’ideazione e la realizzazione dell’opera. Ciononostante, il cuneo di granito nero su cui sono incisi i 57.000 nomi dei caduti in Vietnam dal 1959 al 1975, stretto tra lo svettante obelisco dedicato a George Washington e il tempietto dove ci accoglie Abramo Lincoln in trono, è da subito oggetto di polemiche infuocate: collocato nel Mall, nel cuore monumentale della nazione, tra obelischi, esedre, templi ed eroi, irrompe in modo dissonante voltando decisamente pagina nella storia della memorialistica americana, così prodiga di retorica ed enfasi celebrativa di stampo neoclassico. Eretto a ricordo di una guerra sbagliata e perduta, ne addita con discrezione e sobrietà il costo in termini di vite umane. Niente da celebrare: modernissimo, concettuale, dalla forte sensibilità paesaggistica, incuneato nel terreno, è letteralmente una spina nel fianco della storia nazionale; non rappresenta né evoca ma nomina, una a una, le vittime di una guerra assurda. «Il monumento sembra dirti: questo è quello che è accaduto. Queste sono le persone. Arriva a una conclusione personale». [2]

Diverso l’iter del Memoriale agli ebrei uccisi in Europa, eretto nel cuore di Berlino, tra la Porta di Brandeburgo e Potsdamer Platz, a due passi dal Reichstag. Dal 1988, quando la giornalista Lea Rosh ne denuncia la colpevole assenza, alla sua inaugurazione nel 2005, trascorrono diciassette anni, avvelenati  da dispute e controversie a 360 gradi: a chi dedicarlo – alle vittime della guerra, a quelle del nazismo o solamente agli ebrei -, dove collocarlo – nella ex sede della Gestapo o nei giardini ministeriali, assegnata quest’ultima definitivamente  nel 1994 al memoriale. Il primo bando  di concorso a partecipazione libera, con soli dodici invitati, è dello stesso anno. 528 gli elaborati: nove sono segnalati, due premiati ex aequo. Inspiegabilmente, il progetto selezionato è respinto, con il plauso del cancelliere Helmut Kohl, perché troppo monumentale. Nel 1997, il nuovo senatore per la Cultura di Berlino, Peter Radunski, convoca tre sedute pubbliche, invitando tutte le forze in campo, politici, parlamentari, membri della comunità ebraica, membri della giuria, partecipanti al concorso di primo grado, artisti, storici e architetti, per stabilire definitivamente il luogo, la dedica ma anche la poetica del memoriale. Fermi restando i giardini ministeriali e la dedica ai sei milioni di ebrei sterminati, i convenuti decidono per un secondo grado di concorso, bandito nel 1997, questa volta a inviti: venticinque architetti e artisti, compresi i nove finalisti del concorso precedente. Nomi altisonanti, da Christian Boltanski a Jochen Gerz, da Zvi Hecker a Rebecca Horn a Dani Karavan, da Daniel Libeskind a Ulrich Rückriem a James Turrell a Rachel Whiteread: il fior fiore dell’avanguardia artistica e architettonica internazionale. Alcuni si ritirano, altri sono respinti; otto i selezionati, quattro i finalisti tra i quali la coppia Peter Eisenman-Richard Serra, un architetto concettuale e un artista minimalista.  La loro proposta originaria, 4000 pilastri di cemento, diversamente orientati, larghi 2 m e 30 cm, alti fino a 7 m, poggiati su una griglia ondulata e sbilenca, convince il pubblico e soprattutto il cancelliere Kohl. Ma non finisce qui. All’inizio del 1998, infatti, i due progettisti sono convocati a Bonn per cambiamenti sostanziali al progetto: Serra rifiuta sdegnato e si ritira dalla competizione mentre Eisenman tiene duro e si mette al lavoro per sfoltire i pilastri e abbassarne l’altezza. Se le elezioni politiche dello stesso anno registrano il passaggio dalla CDU di Kohl alla SPD di Gerhard Schröder, il 25 giugno 1999 il Bundestag approva in seduta pubblica il nuovo progetto di Eisenman con 314 voti favorevoli, 209 contrari e 14 astensioni. Con la decisione di posare la prima pietra nel gennaio del 2000 si conclude un iter lunghissimo e si avvia la fase della realizzazione vera e propria, dal 2002 al 2005.

 

Anche il memoriale di Berlino paga pegno per la sua radicalità: non solo la riduzione drastica del numero dei pilastri e della loro altezza, dunque dell’impatto emozionale sul visitatore,  ma soprattutto la costruzione del Centro di informazioni ipogeico ORT, che racconta a parole e immagini ciò che Eisenman  avrebbe voluto affidare solo all’esperienza diretta. Certo, si dirà, tempi lunghi e polemiche infuocate sono giustificati dall’impresa: fare i conti con la propria storia criminale, riconoscerne la responsabilità e per di più monumentalizzarla.

A Nonantola, la situazione è diametralmente opposta e solo apparentemente più facile: realizzare un luogo per la memoria che, sullo sfondo della tragedia della guerra, metta in luce la generosità di un intero paese nel nascondere, salvare e condurre a destinazione settantatrè ragazzi ebrei braccati. Come si spiegano allora tanti rinvii, esitazioni, resistenze? Oltre alle ragioni di carattere politico legate alla relazione complessa tra resistenza e deportazione, tra deportazione politica, deportazione razziale e le loro memorie, si può ipotizzare che la reticenza che ha trattenuto per anni le vittime della Shoah dal testimoniare, abbia in parte agito anche sui salvatori, non eroi ma gente normale che non ritiene affatto di doversi vantare per ciò che reputa assolutamente ovvio: nascondere e salvare chi, innocente, è in pericolo di vita. Se per definizione il monumento celebra, esalta, distingue ed esclude, quello dedicato a questa storia non deve idealizzare i singoli ma raccontare con sobrietà e discrezione il coraggio di un’intera comunità, capace di vincere pregiudizi, minacce, leggi speciali, persecuzione e deportazione. Non solo. Diversamente dai memoriali dedicati alle vittime, che ci portano istintivamente a soffrire immedesimandoci nel male e in chi lo subisce, quello di Nonantola deve spronarci ad assumere quella storia come esempio da seguire nel nostro agire quotidiano.

E, su questo, il bando, estremamente articolato, non lascia adito a dubbi. Sul luogo, anzi sui luoghi, in primis: Prato Galli e il centro storico di Nonantola. Il primo è la località di fronte “al” luogo di questa storia, Villa Emma, oggi inaccessibile, dove i ragazzi vivono e studiano, dal loro arrivo scaglionato nel 1942-1943, fino all’8 settembre. Proprietà della Fondazione, attualmente occupato da due casali di nessun pregio che il bando consente di demolire, Prato Galli è destinato ad accogliere il luogo per la narrazione di quella storia. La sua prerogativa è dunque geografico-simbolica, il suo essere cioè davanti “al” luogo, e dall’essere stato attraversato quotidianamente dai ragazzi nel tragitto dalla Villa al centro di Nonantola. Il fatto che Villa Emma non sia disponibile è in un certo senso un vantaggio: scongiura la tentazione della casa-museo, ed accende la fantasia dei progettisti. Guardare Villa Emma e configurarsi come passaggio sono dunque i primi due requisiti di questo anomalo luogo per la memoria. Molti progetti, nel prospettare edifici monolitici, chiusi, sorta di fortini, disattendono la richiesta di dialogo e confronto. Alcuni compensano aprendo nell’involucro finestre o canocchiali per incorniciare la Villa. Un solo progetto rende letteralmente il memoriale “passante”, facendolo scorrere entro una sequenza di telai metallici; peccato che piazzi al centro un fulcro visivo, una casetta di marmo, che interrompe quella fluidità.

 

Un memoriale diffuso

Procedendo nella lettura del bando, scopriamo che oggetto del concorso è la realizzazione di un Memoriale diffuso dedicato alla vicenda dei ragazzi ebrei accolti e salvati a Nonantola (Mo) tra il 1942 e 1943, costituito da un edificio che ospiterà un museo e altri locali da destinarsi alle attività della Fondazione Villa Emma, oltre al progetto di segnatura artistica di un itinerario fra Villa Emma e alcuni luoghi di Nonantola e del circondario. Un memoriale policentrico, dunque, artistico e architettonico, costituito da un edificio davanti alla Villa e da luoghi disseminati sul territorio, parimenti teatro della storia.  Se il centro utilizza prevalentemente materiale fotografico e interattivo, gli altri luoghi consentono al visitatore di oggi di immedesimarsi e condividere le attività svolte dai ragazzi di ieri. Il modello è il Museo diffuso della Resistenza, della deportazione, della guerra, dei diritti e della libertà, di Torino e Provincia, inaugurato il 30 maggio 2003, e costituito appunto da un “centro d’interpretazione”, cui è affidata la responsabilità di una serie di luoghi di memoria sparsi sul territorio. Dal quartier militare di Porta Susina, infatti, progettato da Filippo Juvarra all’ingresso della città settecentesca, il museo s’irradia coinvolgendo ben venti luoghi: siti storici, musei, percorsi urbani, “sentieri partigiani”, identificati da una segnaletica coerente a quella del museo. L’allestimento, curato dallo studio N!03, è perfettamente ambientato negli spazi voltati della sede settecentesca, è moderno, sobrio e di facile fruizione: guida i visitatori attraverso un percorso multimediale interattivo che si avvale di fonti scritte e orali, fotografie, filmati, testimonianze, interviste, commenti di storici, documenti, qualche oggetto. Un’esperienza più che una visita.

 

Tanto più inclusivo è il dispositivo museale tanto più il visitatore viene posto, in senso fisico e ideale, al centro del dispositivo, in una condizione immersiva che lo porta a vivere da protagonista un’esperienza multisensoriale oltre che intellettuale che egli contribuisce a creare muovendosi nello spazio, interagendo attivamente con quanto lo circonda e di cui viene a sentirsi parte. [3]

 

Quali sono i contenuti e le funzioni assegnate al “centro d’interpretazione” davanti a Villa Emma?

Alcune sono ovvie: uno spazio espositivo per narrare la storia; gli uffici della Fondazione Villa Emma; uno spazio accoglienza e ristoro per i visitatori e i gruppi scolastici; un archivio che documenti le attività della Fondazione; un’area-laboratorio didattica. Ma c’è un’altra destinazione che rende questo memoriale unico e paradigmatico: lo spazio per associazioni, gruppi, servizi che operano sul territorio, impegnati in progetti che riguardano la condizione dei migranti e la realizzazione di una Scuola di formazione per operatori di accoglienza, Le strade del mondo, rivolta in particolare a bambini, ragazzi e giovani coinvolti nei flussi migratori, di cui ci parla diffusamente Maria Bacchi.  Se la storia di Villa Emma è esemplare della possibilità di disobbedire, di proteggere anziché denunciare, di salvare anziché uccidere, ricordare quella storia oggi non significa idealizzarla e monumentalizzarla rendendola ineguagliabile ma, al contrario, declinarla nel nostro tempo e nel nostro spazio, proteggendo e salvando chi oggi è in fuga, respinto e in pericolo di vita. Questo non vuol dire affatto ridurre la portata della tragedia di allora nel confronto con le tragedie di oggi. La storia di Villa Emma ripresenta, ribaltata, l’annosa questione dell’unicità o dell’universalità della Shoah, se cioè “unico” e “confrontabile” siano termini inconciliabili o invece necessari a che, parafrasando il motto “non succeda mai più”, quanto accaduto a Nonantola possa “succedere ancora” e ancora e ancora… Dipende solo da noi: i salvatori nonantolani non sono né eroi né santi, ma persone normali, come lo sono, agli antipodi, i carnefici dei lager. Per questo, lo spazio dedicato alla formazione di operatori dell’accoglienza è di fondamentale importanza: segna la differenza tra un memoriale celebrativo e una struttura viva, un laboratorio per il presente. Anche il Memoriale Binario 21 di Milano, del resto, ha aperto le sue porte all’accoglienza dei profughi, pur fra tante polemiche e contestazioni.

 

Sebbene le storie e le memorie della Seconda guerra mondiale rimangano un necessario punto di partenza, lo scopo è toccare i conflitti attuali, le difficili prospettive che scommettono sul dialogo tra le diversità, l’impegno di quanti propongono e sperimentano soluzioni, in realtà segnate dalla violenza, per riaffermare le ragioni della convivenza»,[4]

 

ribadisce Fausto Ciuffi, il direttore della Fondazione Villa Emma. Quanto alla collezione del museo torinese, Daniele Jalla ci avverte: «un museo che non è un museo, nel senso tradizionale del termine, privo di collezioni proprie e di allestimento permanente».[5] La situazione nonantolana è analoga: se il museo torinese annovera solo due oggetti, una pedalina, cioè una macchina a pedale per la stampa clandestina, e una sedia utilizzata per le esecuzioni al Poligono del Martinetto, Nonantola possiede il lascito prezioso dei novantasei libri appartenuti ai ragazzi, della cui tutela, restauro e interpretazione ci parla diffusamente Elena Pirazzoli e che troveranno certamente una collocazione privilegiata nella nuova struttura.

 

Le idee storiche presentate in modo intelligente dovrebbero svolgere un ruolo almeno pari a quello degli oggetti quando si tratta di determinare il tema centrale di una mostra […] La scelta risulta particolarmente cruciale per le mostre in cui il materiale disponibile è frammentario, mentre i dati storici sono abbondanti e l’argomento altamente significativo. In questi casi, gli allestitori devono ragionare in modo creativo e coraggioso.[6]

 

Impossibile nominare le tante varianti progettuali presentate al primo grado. Nella maggioranza delle proposte, la forma è stereometrica, rettangolare o frutto della combinazione di volumi geometrici; in un solo caso somiglia a una “tenda”, come se il suolo si corrugasse e deformasse per coprire uno spazio allungato e trasparente, o a un accampamento di tende, con l’aggregazione di forme trapezoidali  corredate da profondi archi in facciata; in un altro, l’insieme si frammenta invece in nuclei organici e spiraliformi. Due ipotesi sono accomunate da una struttura tripartita – due blocchi laterali e uno centrale, di vetro o aperto a patio – e da una copertura che cita quasi letteralmente il masso incombente-librante del Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma. In una delle due il masso è addirittura in cemento armato, mentre nell’altra il blocco vitreo è rivestito con gelosie di cotto, materiale locale che stempera e contestualizza l’asetticità del vetro. La struttura tripartita si ripropone in altri progetti: origina infatti nella presenza sul terreno dei due casali; pur privi di pregio, pochi vogliono demolirli; molti li preservano completamente, prevedendo tra i due  una struttura dissonante di raccordo; altri li svuotano lasciando una grande scatola vuota cui si aggancia il nuovo edificio di acciaio rivestito magari di gres porcellanato. Altrove, le tracce dei due edifici demoliti sono state mantenute come unità di misura per la nuova costruzione.  Oppure, un nuovo monolite è contenuto dalle pareti esterne frammentate dei casali esistenti oppure i setti rimanenti dalla loro distruzione sono inglobati nella nuova architettura in una sorta di fortezza immaginaria. Interessante il progetto che lascia Prato Galli completamente libero per l’attraversamento: il Museo è ipogeico e, in superficie, “virtualizza” l’esistente costruendo con lame metalliche la volumetria dei casali, leggibile da lontano, ma che si dissolve progressivamente accorciando le distanze. Altra ipotesi ricorrente è la demolizione dei casali e il recupero della materia prima, o in forma di laterizi per costruire il nuovo edificio o di lacerti di laterizio, reimpiegati per gli impasti cementizi dei muri e della pavimentazione.  Riassumendo, ciò che emerge dalla maggior parte delle proposte è che la dialettica tra casali senza qualità ma testimoni della storia e nuovi organismi avulsi dal contesto rifletta simbolicamente quella tra passato e presente, tra memoria e attualità, tra antico e moderno, tra tradizione e innovazione, tra città e campagna; quasi un’opzione linguisticamente coraggiosa equivalesse a un tradimento della storia. La stessa dialettica si riverbera a scala minore tra i materiali, il laterizio da una parte e il cemento, ferro e vetro dall’altra, e tra le tecniche, artigianali o industriali, meccaniche o manuali, algide o rustiche, rifinite o scabre, luminose o tenebrose.

Se da Prato Galli procediamo verso il centro storico di Nonantola, incontriamo i quattordici luoghi segnalati dal bando come parte integrante del Memoriale diffuso. Sono quelli frequentati dai ragazzi prima dell’8 settembre, dalla ex stazione al Seminario alla casa di Moreali, dalla falegnameria alla tabaccheria alla cantina sociale alla casa della cestaia, ma anche i luoghi di rifugio e salvezza dopo l’occupazione tedesca, cioè le case dei nonantolani. Alcuni candidati fanno esplicitamente riferimento agli Stolpersteine, le pietre d’inciampo inventate dall’artista tedesco Gunter Demnig e installate davanti alle case dei deportati, il più grande memoriale diffuso a scala europea, che annovera già oltre 80.000 postazioni.

 

Segnalare e coinvolgere

Possiamo grosso modo distinguere tra le proposte artistiche che si limitano a indicare i luoghi con un segno, una scultura o un oggetto, quelle che li attivano stimolando la partecipazione dei fruitori, quelle infine, minoritarie, che implicano  una trasformazione stabile dell’assetto urbano. Alcuni interventi sono definitivi, altri prevedono uno svolgimento e definizione nel tempo. Tra i primi, l’offerta è variegata: un nastro trasparente filtra e scherma i luoghi, sottraendoli all’indifferenza; due monoliti fungono da piedistalli da riempire ogni anno con un intervento artistico diverso. Il numero settantatrè è ossessivamente presente: nei pilastri che si assiepano a Prato Galli per rarefarsi e distribuirsi nel paese davanti ai singoli luoghi; nei totem trasparenti che assumono sembianze umane in prossimità delle singole stazioni; nelle stele di acciaio la cui altezza è proporzionale all’età dei ragazzi, nelle silhouette di corten, negli anemometri con  foglie di quercia, nelle piante di melograno, nelle altalene in acciaio e terracotta, nelle sedie, nei telai, nei drappi sulle facciate, ispirati alle mezuzoth che gli ebrei affiggono sullo stipite della porta con una preghiera benedicente, negli inserti di mattoni che distinguono le case. A proposito di sedie, che ritroveremo anche nel progetto vincitore, settantatrè esemplari in bronzo sono collocati nel giardino d’ingresso a Prato Galli. Ognuna poggia su una lastra che reca un nome inciso. Quelle mancanti sono disseminate a Nonantola.

Fra gli interventi interattivi spiccano i quattro distributori di palloni, luci segnaletiche, quaderni e buste di palline di semi, disposti lungo le linee di collegamento fra il centro di Nonantola e Villa Emma, che invitano alla relazione e alla costruzione di un nuovo racconto all’interno della comunità attuale. Durante la notte gli stessi si trasformano in fonti di illuminazione urbana. Analoga la proposta di un percorso artistico le cui tappe sono segnate da alcuni oggetti appartenuti ai ragazzi, una valigia, un libro, un giocattolo. Il visitatore è guidato da una web-app che, in prossimità delle stazioni, gli indica di inquadrare con lo smartphone l’elemento esposto. Un’altra distingue invece tra i luoghi di vita dei ragazzi e i loro nascondigli, segnando i primi con gli oggetti da loro utilizzati, dalle biciclette ai tavoli da pic-nic agli scaffali per i libri, ricostruiti in corten e a disposizione dei cittadini, e segnalando gli altri con la parola ebraica zadikim, Giusti.

In un’altra ipotesi sono i settantatrè ragazzi a guidare i visitatori in giro per il paese: sagome metalliche “indossabili” consentono loro di interagire e immedesimarsi nella storia. Troveranno così un melo o un cesto di mele ad accoglierli alla stazione, la possibilità di costruire un oggetto davanti alla falegnameria o di fare cesti davanti alla cestaia o di colorare e indossare i cappotti donati dalle donne per la fuga in Svizzera.  Oppure sono i percorsi stessi a divenire artistici attraverso la ripetizione di un modulo esagonale che ogni anno è affidato a un artista diverso perché lo interpreti a seconda delle quattordici stazioni. Un paio di progetti approfittano infine del circuito della memoria per innescare un processo di rigenerazione viaria a livello cittadino: l’adeguamento dei sentieri ciclabili di interesse paesaggistico attualmente inagibili e privi di segnalazione; una migliore fluidità e capillarità della  rete ciclabile esistente per raggiungere i parchi pubblici, il fiume o il centro storico e, a scala regionale, l’allacciamento agli itinerari turistici nazionali ed europei come la linea Eurovelo 7. C’è anche la proposta di conversione della linea ferroviaria Modena-Ferrara, ora in disuso, in asse viario per la mobilità dolce. Se solo due progetti indicano le direzioni di provenienza dei ragazzi dall’Europa, nessuno accenna alla necessità di collegare il memoriale davanti a Villa Emma agli altri luoghi di memoria dell’Emilia Romagna e più in generale di tutta Italia.

Alla luce di quanto detto, perché dunque premiare la soluzione dello Studio Bianchini e Lusiardi di Cremona? In cosa si distingue dagli altri elaborati? Se dal punto di vista funzionale risponde a tutti i requisiti richiesti dal bando, da quello linguistico opta decisamente per una soluzione moderna, contemporanea, senza indulgere in nostalgie stilistiche e in tentazioni conservative e conservatrici; il legame con il passato non si misura sul mantenimento di fabbricati di nessun valore artistico, architettonico, urbanistico. In secondo luogo, il progetto dimostra di aver metabolizzato la storia traducendola in spazi e percorsi: il volume rettangolare del centro d’interpretazione è aperto, discontinuo e trasparente; consente in ogni punto la permeabilità tra interno ed esterno; non c’è bisogno di incorniciarla o guardarla con il canocchiale: Villa Emma è sempre presente, a confronto con le immagini che, nel percorso storico-documentario, la ritraggono occupata e animata dai ragazzi. Altri due aspetti fondamentali della storia sono il policentrismo e la precarietà esistenziale dei ragazzi. Plurima la loro provenienza: dalla Germania e dall’Austria per la maggior parte del primo gruppo, da Spalato per i trentatrè del secondo contingente, da Sarajevo a Zagabria alla Slovenia a Trieste; univoca la permanenza  a Nonantola (dove il primo gruppo giunge nel luglio 1942 e il secondo nell’aprile 1943); duplice l’esodo dal riparo emiliano, in Svizzera dopo l’8 settembre  e infine, a guerra conclusa, in Israele. Se la diaspora nonantolana tra villa Emma e il centro del paese è affrontata da tutti i concorrenti, il prima e il dopo Nonantola è ampiamente disatteso. Il “non-edificio” di Bianchini e Lusiardi, come lo definiscono, è invece un organismo centrifugo, non concepito a partire dall’involucro ma dall’interno, dalla spina centrale del percorso. Tutt’altro che rettilinea, quest’ultima è esplosa, frammentata e disarticolata secondo le direzioni lontane e vicine seguite dai ragazzi; i pannelli di legno ruotati sono il cuore strutturale e concettuale dell’edificio: supportano la copertura, anch’essa di legno ma parzialmente trasparente, interrotta da lucernari irregolari disposti asimmetricamente, il cui elemento unificante,  visibile sia all’esterno sia all’interno, è il frangisole in legno la cui texture evoca simbolicamente la sukkah, il riparo provvisorio nel quale gli ebrei vivono ogni anno per una settimana, a ricordo dei quaranta anni di  peregrinazione nel deserto verso la Terra Promessa. Gli stessi pannelli supportano, con le immagini e le parole di protagonisti e testimoni, la storia di Villa Emma, cui fa eco in quelli più esterni che fungono da involucro, la macrostoria della guerra, delle persecuzioni, delle deportazioni. Poichè i pannelli della spina centrale si proiettano oltre l’involucro, la forma definitiva del memoriale perde qualsiasi certezza, come salta evidente guardando la pianta dell’edificio, disseminata di frammenti all’interno e  nel parco circostante. E’ una situazione che non invita certamente alla calma e alla sosta ma a procedere lungo la storia e lungo l’edificio che è appunto solo di passaggio. Non c’è dubbio che, nel pensare a un memoriale aperto e transitorio, i due architetti si siano ispirati agli esempi più coraggiosi tra i musei e i memoriali contemporanei: certamente alla saetta del Museo ebraico di Berlino di Daniel Libeskind, di cui riprendono quasi letteralmente alcune soluzioni, quali la casualità e irregolarità delle aperture sul tetto o gli incroci di travi del contro-soffitto, o ai percorsi dissestati del memoriale di Peter Eisernman a Berlino. Anche se, a differenza di questi casi, fortemente dispendiosi energeticamente, gli artisti di Cremona rispettano il diktat del bando circa la sostenibilità e la riduzione dei consumi, ottenuta attraverso il riscaldamento e raffreddamento geotermico, i pannelli fotovoltaici, un sistema di recupero delle acque piovane.

Quanto all’itinerario artistico tra Villa Emma e il centro storico di Nonantola, i due vincitori optano per la sedia, oggetto domestico senza tempo, simbolo di accoglienza e di ospitalità. Segnala l’abbazia, le case, le officine e le botteghe che hanno accolto i ragazzi. La sedia, soggetto principe della storia dell’arte, da Vincent Van Gogh a Joseph Kosuth a Jannis Kounellis, è qui in bronzo, e diventa scultura. Sono tutte uguali, come gli Stolpersteine di Gunter Demnig, ma tutte diverse perché ognuna racconta, sullo schienale e sulla seduta, una storia diversa. Sono collocate liberamente, quasi fossero state appena spostate. Per il suo carattere famigliare, domestico, a scala umana, la sedia è spesso presente nei memoriali. Ne ricordiamo due. Il primo, che risale al 2005, opera dell’architetto David Bravo Bordas, occupa interamente la Umschlagplatz di Cracovia, la piazza del vecchio ghetto dove, dopo una strenua resistenza contro gli occupanti nazisti, che vede il suo acme nella notte del 22 dicembre 1942, migliaia di ebrei sono costretti a radunarsi  per essere avviati ai campi di sterminio di Auschwitz, Plaszow e Belzec. All’angolo sud della piazza, c’è ancora la Apteka Pod Orlem, l’unica farmacia consentita agli ebrei, il cui proprietario, Tadeusz Pankiewicz, tanto si prodigò nella cura e protezione dei perseguitati da meritare il titolo di Giusto tra le Nazioni.  All’estremità opposta si trova invece il box della stazione di polizia dove gli ebrei erano schedati prima della deportazione. In mezzo, tra i poli del bene e del male, si dispiega il memoriale: sull’immensa piazza di 13.000 metri quadrati, pavimentata con pietra grigia e suddivisa da una griglia quadrata, le sedie, più grandi del normale, sono fissate al suolo su una base di metallo e guardano tutte nella stessa direzione. La sedia non sta qui né per accoglienza né per ospitalità, come a Nonantola, ma, al contrario, è sinonimo di perdita, sradicamento, morte violenta. C’è una fotografia terribile che ritrae una fila di bambine in marcia verso la piazza con le sedie sollevate sopra le loro teste. Prese dalle case appena abbandonate, devono essere ammucchiate con gli altri mobili e suppellettili prima della partenza. Caos, confusione, disperazione dovevano regnare in quella piazza nel 1942, ma il memoriale non li evoca; quelle sedie irregimentate sono fredde, distanti e non ci coinvolgono. Meglio allora, per restituirci quel clima, Lo spazio abbandonato a Koppenplatz a Berlino, opera di Karl Biedermann, il vincitore di un concorso indetto nel 1991 per ricordare gli ebrei e gli stranieri che abitavano nel quartiere prima della deportazione. Realizzato nel 1997, è la ricostruzione in bronzo di un interno: un pavimento, un tavolo e due sedie, una delle quali, rovesciata a terra, visualizza  l’inciampo durante una fuga precipitosa. O, ancor più crudo, seppure con altro soggetto, Scarpe sul lungo Danubio a Budapest, progettato dall’artista Pauer Gyula nel 2005 in memoria  degli ebrei ungheresi deportati, tra gli ultimi, tra il 1944 e l’anno successivo. Lungo una banchina del Danubio, non lontano dal Parlamento, sessanta paia di scarpe di ferro di varia forma e misura, tutte in stile anni Quaranta, sono allineate sulla banchina in modo casuale: dritte, capovolte, spaiate, come fossero state tolte frettolosamente. Ricordano le vittime del feroce e sanguinario corpo speciale di polizia ungherese, le Croci frecciate, che usava legare due vittime insieme in modo che, sparando alla prima, il suo peso morto trascinasse nel fiume l’altra ancora viva, risparmiando così un proiettile.

 

Per una mappa regionale

Nessun progetto, dicevamo, si preoccupa di legare il memoriale di Nonantola ai tanti luoghi di memoria dell’Emilia Romagna: Il Parco Storico di Monte Sole, il Museo-Monumento al Deportato Politico e Razziale di Carpi, il campo di transito di Fossoli, la stazione di Bologna, quello alle vittime di Ustica, il Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah a Ferrara, il Memoriale alla Shoah di Bologna, per citare i più noti. Un panorama eterogeneo per i moventi, i destinatari, i contenuti, i luoghi, i tempi ma soprattutto la diversa declinazione di memoria che li motiva. Alcuni, da Fossoli a Carpi a Monte Sole alla stazione di Bologna sono veri e propri siti del trauma, per le vittime politiche e razziali del nazismo e per quelle del terrorismo; Carpi si nutre della vicinanza con Fossoli, mentre il Museo storico dell’ebraismo italiano a Ferrara colma una lacuna nazionale. Quello per la memoria di Ustica, in uno spazio industriale anonimo come gli ex Magazzini dell’ATC, è un caso a sé. E’ concepito  dall’artista francese Christian Boltanski come opera d’arte totale intorno  al relitto ricomposto del DC-9 dell’Itavia, partito dall’aeroporto di Bologna il 27 giugno 1980 con ottantuno passeggeri a bordo e inabissatosi la sera stessa nel Mar Tirreno, all’altezza di Ustica, in un luogo «intangibile e indeterminabile».[7] «Testimone muto, corpo del reato, simulacro e reliquia»,[8] l’aereo è il vero sito del trauma; vi si gira intorno, in assenza delle vittime, che sono in fondo al mare, dei loro averi, presenti ma invisibili se non in fotografia, delle loro voci e dei loro dialoghi immaginari. L’installazione di Boltanski ci consente di essere allo stesso tempo fuori e dentro quel relitto: lo scrutiamo dall’alto, lungo la passerella che lo circuisce, dunque con un distacco che lenisce l’angoscia, ma circondati da ottantuno specchi neri, sorta di finestrini oscurati, dai quali si diffondono le voci dei passeggeri. Un museo decisamente immersivo, che lascia all’Archivio la documentazione scientifica e la ricostruzione dei fatti, la vicenda giudiziaria e l’attività preziosa e indefessa dei famigliari delle vittime.

Aperto nel 1942 come campo per prigionieri di guerra, Fossoli è requisito dopo l’8 settembre 1943 dai tedeschi e utilizzato come campo di concentramento e transito di ebrei e politici destinati allo  sterminio. Chiuso nel 1970, conosce plurime destinazioni, da campo degli “indesiderabili” a sede della comunità di Nomadelfia a campo per i profughi giuliani e dalmati. Dopo i tentativi di restaurare le baracche “in stile”, attende ancora la destinazione e la sistemazione definitiva, mentre il degrado procede a passi da gigante. Il Parco Storico di Monte Sole, istituito nel 1989, può definirsi un monumento policentrico e territoriale perchè coinvolge tre comuni teatro delle stragi naziste del 1944; analogamente a Nonantola, è memoria del passato, negli itinerari attraverso i luoghi, i resti, le lapidi e i sacrari, ma fortemente orientato sul presente, sulla difesa dell’ambiente e, grazie alla scuola di Pace aperta nel 2002, sulla formazione dei giovani alla cultura della pace. Una grande sobrietà informa il Museo-Monumento di Carpi, progettato dal gruppo milanese BBPR e inaugurato nel 1973. Ludovico di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers hanno pagato la militanza antifascista con l’esilio, il carcere e la deportazione: Banfi è morto nel campo di Mauthausen-Gusen dove è stato rinchiuso fino alla Liberazione anche Belgiojoso, mentre Rogers è stato costretto all’esilio in Svizzera. Come il Mausoleo delle Fosse Ardeatine, il primo eretto nella Roma appena liberata, il Museo di Carpi è progettato da architetti-testimoni che, convinti della missione etica e profetica dell’architettura, metabolizzano nella progettazione una tragedia personale e collettiva. La sua storia è lunghissima, dal 1955, quando il sindaco Losi ospita nel Palazzo dei Pio una mostra sui campi di concentramento nazisti,  al 1961 quando, in concomitanza con il processo Eichmann a Gerusalemme e le celebrazioni per il Centenario dell’Unità d’Italia, Losi annuncia con grande lungimiranza la volontà di realizzare nel Castello un museo sulla deportazione politica e razziale in prossimità del luogo della memoria di Fossoli. Per la prima volta, la deportazione razziale acquista una sua identità, autonoma da quella politica. Il Museo avrebbe indicato «l’indissolubile legame che univa i resistenti in armi ai resistenti dei campi di sterminio, perché unico era l’obiettivo e identici i valori per i quali lottavano, soffrivano e molti morivano».[9] Allo stesso 1962 risale la pubblicazione del bando di concorso: otto i progetti in lizza, otto i membri della giuria, uno per ogni componente del comitato promotore; tra loro anche Carlo Levi e Albe Steiner. La vittoria va all’unanimità ai BBPR. L’esito straordinario si fonda su tre cardini: la testimonianza, la documentazione storica, la sinergia tra le arti. Il percorso parte dal piazzale esterno, dove sedici stele in cemento poli-direzionate sono vergate con i nomi dei campi di concentramento, e si snoda all’interno, attraverso le tredici sale di Palazzo dei Pio. Le pareti spoglie e le volte sono intonacate in maniera uniforme: alcune sono vergate dalle frasi tratte da Nelo Risi dalle lettere dei Condannati a Morte della Resistenza Europea, altre sono impegnate dai graffiti di Pablo Picasso, Corrado Cagli, Renato Guttuso, Fernand Léger e Alberto Longoni che, grazie alla tecnica a spolvero, sono incisi nella carne viva dell’intonaco e dunque, come gli affreschi, diventano parte integrante dell’architettura. I 15.000 nomi dei deportati italiani foderano pareti e volta della sala che chiude il percorso. Gli oggetti appartenuti ai deportati, tra i quali le posate e la matricola di Belgiojoso, sono nel fondo dei grandi pozzi di pietra serena progettati da Albe e Lica Steiner. Non si impongono al visitatore per la loro terribilità nè per la  quantità degli esemplari; sono deposti discretamente, quasi seppelliti; occorre affacciarsi per vederli. Una grande opera corale che intreccia architettura, pittura, scrittura, reperti materiali, senza alcuna retorica o ricerca di effetti speciali. Il realismo dei graffiti convive con l’astrazione di stele e teche e il concettualismo della scrittura, che anticipa i tanti memoriali futuri fondati sui nomi, a partire da quello di Washington dal quale ha preso avvio il nostro excursus.

Concludiamo con la stazione di Bologna,[10] sito del trauma del 2 agosto 1980, quando un attentato dinamitardo costa la vita a 85 persone e il ferimento ad altre 200. Prima e dopo, nel 1974 e nel 1984, attentati terroristici della stessa natura colpiscono treni in transito nella stessa stazione. Non si tratta in realtà di un memoriale, ma della sistemazione delle tracce dell’attentato e della strage: dall’orologio nel piazzale, fermo all’ora dello scoppio, allo squarcio nella sala d’attesa, al pavimento della stessa sala con il fornello della bomba, dal cratere della bomba alla lapide con i nomi e l’età delle vittime, alla foto del Teatro Comunale di Bologna, attaccata nella vecchia sala d’attesa, salvata da un ferroviere e ricollocata in quella nuova.  «Memorie intime […] leggibili dai familiari, dagli amici, dai cittadini tutti […] impercettibili per chi non sa, per chi non ricorda, per chi è nato dopo, per chi vive lontano e qui si trova solamente a passare».[11] Memorie che si è deciso da subito non dovessero intralciare il normale funzionamento della stazione ferroviaria, ma divenire parte della vita quotidiana di migliaia e migliaia di viaggiatori. Così, uno snodo ferroviario e urbano cruciale diventa dal 1980, suo malgrado, anche un luogo di memoria. Una scelta coraggiosa che non relega la memoria ad altri tempi ed altri spazi. La ristrutturazione e l’ampliamento dello snodo, in programma da tempo, è affidato alla metà degli anni Novanta all’architetto catalano Riccardo Bofill che progetta la stazione dell’Alta Velocità nel piano interrato. Sopra, sulla piattaforma non finita che ospita i due cunei progettati per ospitare gli impianti, viene eretto nel 2016 il Memoriale della Shoah, su progetto del gruppo romano Set Architects: due pareti di acciaio corten  alte dieci metri, parallele, ripartite internamente per evocare i dormitori nelle baracche, creano un corridoio claustrofobico con evidenti criticità. Un legame fragile con il luogo, intanto: nessun treno diretto ad Auschwitz si è formato infatti nella stazione di Bologna, vi ha transitato solo quello che ha lasciato Firenze il 9 novembre 1943 diretto ad Auschwitz. Il memoriale è difficilmente fruibile al difuori delle cerimonie ufficiali che hanno luogo  al suo esterno; rischia di condividere la sorte di degrado dell’area limitrofa; si insinua, infine, prepotentemente e abusivamente in una struttura architettonica e urbanistica che non lo contempla. Esito di un concorso svoltosi nel tempo record di un anno, sconta lo scarso coinvolgimento dei cittadini, i veri destinatari di ogni memoriale.

In tale ricco e variegato panorama memoriale e culturale, il luogo per la memoria Davanti a Villa Emma è perfettamente a suo agio; si esprime con un linguaggio architettonico moderno e dinamico, veicola una concezione della memoria non agiografica e celebrativa ma operosa, radicata nel presente e proiettata nel futuro. Per questo è fondamentale pensarlo come parte integrante di una mappa dei luoghi della memoria dell’Emilia-Romagna e, nel tempo, di quelli dell’intero territorio nazionale.

 

Adachiara Zevi

Via del Portico d’Ottavia 20a – 00186 Roma

19 marzo 2021

 

 

 

Abstract

Il testo ripercorre la vicenda del concorso “Davanti a Villa Emma”, bandito nel 2018 e concluso l’anno successivo, per la realizzazione di un luogo che racconti, visualizzi e faccia rivivere la storia avventurosa e a lieto fine dei 73 ragazzi ebrei in fuga dal nazismo. Come configurare un monumento dedicato a una comunità di salvatori?  Fra le 37 proposte inviate, il progetto vincitore è apparso alla giuria il più consono ai presupposti  storici, teorici ed estetici discussi per anni collettivamente nell’ambito della  Fondazione Villa Emma. Un memoriale “diffuso” che dalla Villa, epicentro della storia, si irradia sul territorio a toccare i luoghi di salvezza e di socialità dei ragazzi. Un organismo dinamico e policentrico che guarda ai luoghi di provenienza, orienta  in quelli della storia nonantolana per accennare alla destinazione finale in Palestina.  Sia il concorso sia il memoriale sono indagati sullo sfondo di altre vicende concorsuali e memoriali che hanno impegnato dal dopoguerra istituzioni, intellettuali e opinione pubblica nella ricerca del contributo dell’arte e dell’architettura all’elaborazione  della memoria delle tragedie passate, alla luce di quelle contemporanee.

 

Note biografiche

 

Architetto e storica dell’arte, professore di storia dell’arte, Adachiara Zevi ha pubblicato saggi, articoli e i volumi “Arte USA del Novecento”(Carocci), “Peripezie del dopoguerra nell’arte italiana”(Einaudi), “L’Italia nei Wall Drawings di Sol LeWitt”(Electa) e “Monumenti per difetto”(Donzelli). Cura dal 2002 la biennale Arteinmemoria nella sinagoga di Ostia antica e dal 2010 il progetto Stolpersteine in Italia. È presidente della Fondazione Bruno Zevi e dell’associazione “Arte in memoria”.

Nel 2018 è stata insignita del Cavalierato dell’Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania. E’ membro del comitato scientifico del CDEC, della Fondazione Villa Emma e advisor dell’Accademia americana di Roma.

Collabora a Pagine Ebraiche, il mensile dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

[1] I membri della giuria sono: Prof. Matteo Al Kalak (Università di Modena e Reggio Emilia, Fondazione Cassa di Risparmio Modena); Arch. Anna Allesina (Presidente Ordine Architetti P.P.C. Modena); Prof. Daniele Jalla (Storico e Museologo, già Presidente Icom Italia); Dott. Stefano Sola: (Responsabile Area Organizzazione e Affari Generali Unione Comuni del Sorbara, Direttore Servizio Unico Appalti); Arch. Adachiara Zevi (Storica dell’arte, Presidente Associazione Arteinmemoria e Fondazione Bruno Zevi).

 

[2] Maya Lin, in Phil McCombs, Maya Lin and The Great Call of China, «The Washington Post», 3.1.1982, p. F9.

 

[3] Daniele Jallà, Per una storia dei musei di storia, «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», 3, luglio (2007), pp. 459-471.

 

 

[5] D. Jalla, testo letto in occasione dell’inaugurazione del museo, 2 dicembre 2004.

 

[6] Spencer R. Crew – James E. Sims, Situare l’autenticità: frammenti di un dialogo, in Ivan Karp, Steven D. Lavine (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Bologna, CLUEB 1995, pp. 75-98.

[7] Elena Pirazzoli, In attesa della storia. Il Museo per la memoria di Ustica a Bologna, «Italia contemporanea» 289, aprile (2019), p.145.

[8] Ibidem.

 

[10] E. Pirazzoli, Costruire memorie, ritrovare i luoghi. La Shoah e le stragi del 1980 nei memoriali di Bologna, «Rassegna Mensile di Israel», 84, 1-2 (2018), pp. 219-239.