intervento in occasione della presentazione del terzo volume del catalogo generale dell’artista. Milano, Museo del Novecento, 26 ottobre 2023
Come in tutti i lavori discreti che non incombono nè sovrastano l’osservatore con gesti, forme e colori sguaiati, le superfici immacolate di Castellani si prestano a infinite letture e interpretazioni. Molte di quelle che ho affrontato nel corso dei lunghi anni di frequentazione dell’artista mi sono state commissionate da lui. Mi riferisco in particolare a quattro ossimori che vorrei proporre oggi alla vostra attenzione: “automatismo concettuale”, “concretismo gestuale”, “illusionismo reale”, “arte-architettura”.
Automatismo concettuale. Nel caso di Castellani, il termine automatismo non ha nulla a che vedere con incontrollato, spontaneo, mutevole, viscerale ed emotivo, attitudini incompatibili con un’ indole rigorosa, introversa e scontrosa. E’ un automatismo analogo a quello di Pollock, controllato nel processo dell’opera ma imprevedibile nell’esito. “Quando dipingo, ho un’idea d’insieme di quello che voglio fare. Posso controllare la colata della pittura, non c’è casualità, cosí come non c’è inizio né fine. Non utilizzo il caso perché nego il caso”, così Pollock. A differenza dell’action painter americano, però, l’automatismo di Castellani non riguarda la pittura ma la costruzione, non la tela ma il telaio. Per Castellani, architetto di formazione e pittore per vocazione, la tela e la pittura costituiscono solo l’ultimo atto del quadro. Il processo creativo è precedente e invisibile. “Io parto sempre dal perimetro dove costruisco delle suddivisioni aritmetiche che sono il punto d’avvio […], quel che accade all’interno della superficie è casuale […], una casualità controllata da ciò che ho predisposto sul perimetro […], la casualità è generata dalla progressione aritmetica”, spiega. Matematica e caso, una contraddizione in termini. Come negli anagrammi dove la figura emerge come per incanto dal congiungimento di punti oculatamente predisposti, curve, vortici, assembramenti, rarefazioni sono l’esito di quella scelta iniziale. L’opera, dunque, è frutto di un processo concettualmente ineccepibile ma visivamente imprevedibile.
Concretismo gestuale. Nel saggio “Continuità e nuovo” apparso sul secondo numero di Azimuth nel 1960, Castellani non nomina alcun artista italiano di riferimento. Neppure Fontana che l’anno precedente aveva firmato l’articolo di fondo del primo numero della rivista, “Oltre la pittura”, e la cui lezione lo stesso Castellani aveva appreso e metabolizzato nei lavori tra il 1958 e l’anno successivo dove pieghe, rigonfiamenti, fili, residui di pittura, annunciavano monocromia, tensione, contrasto chiaroscurale.La formazione di Castellani, sappiamo, è europea e architettonica, a Bruxelles, all’École nationale supérieure de la Cambre, fondata da Henry van de Velde, di ispirazione Bauhaus, attenta agli aspetti tecnici e sociali della progettazione. “Conoscevo il lavoro degli artisti parigini e avevo informazioni sufficienti sulla ricerca che si svolgeva in Europa. Tornato in Italia ho avvertito una condizione di chiusura, di stanca ripetizione di modelli surrealisti e informali, un attardarsi dunque su posizioni ormai invecchiate. Queste insoddisfazioni e l’esigenza di sperimentare vie diverse, di percorrere itinerari meno scontati, hanno stimolato l’incontro fra me e Manzoni”, instancabile viaggiatore tra Milano, Parigi, Dusseldorf e Amsterdam. In quel testo programmatico, Castellani nomina per primo Piet Mondrian, riferimento sicuro sin dai tempi dell’apprendistato architettonico. Avendo negato validità al concetto di finzione artistica, Mondrian “ha liberato l’arte da ogni ipoteca decorativa, evocativa, del rappresentare”. Se il pittore neoplastico addita la via di una forma d’arte ridotta alla semanticità del suo linguaggio …la sola possibile forma d’arte”, i suoi epigoni si limitano a “estetizzare formule matematiche”. In una veloce ma stringente carrellata storica, Castellani, attraverso il dadaismo che legittima “il gesto di rivolta intellettuale” e il surrealismo che afferma “la validità dell’automatismo psichico” e, contro lo sterile dogmatismo post-neoplastico, “la positiva accettazione di una condizione umana mai aprioristicamente definibile”, approda a Pollock. A lui spetta l’immane compito di emancipare l’automatismo dalle “pastoie di metapsichiche elucubrazioni”, affermare come “ultima ratio il gesto fisico automatico” e, chiudendo verso ritorni “a un’arte di rappresentazione o d’interpretazione di fenomeni soggettivi, raggiungere l’ideale di una pittura concreta”. Il “concretismo gestuale” di Pollock, allora, una contraddizione in termini, è la sintesi tra Mondrian e dada attraverso il surrealismo. A lui va il merito di aver liberato l’astrazione dalla geometria e la gestualità dalla figurazione e dalla patologia. Se Mondrian stabilisce l’inviolabilità della superficie bidimensionale attraverso il dialogo tra linee e piani colorati, rinnovarne il messaggio significa liberare ulteriormente la superficie da vincoli compositivi e cromatici. Retrocedendo dalla linea al punto, dalla geometria all’aritmetica, dall’ordine razionale a quello ritmico, dalla policromia alla monocromia, Castellani virtualizza i tracciati di Mondrian e li affida alla luce, trasgressiva di ogni simmetria. “Il solo criterio compositivo possibile è quello che attraverso il possesso di un’entità elementare, linea, ritmo indefinitamente ripetibile, superficie monocroma, sia necessario per dare alle opere stesse concretezza d’infinito e possa subire la coniugazione del tempo, sola dimensione concepibile”: dallo spazio al tempo, dalla forma chiusa alla infinita possibilità dei percorsi ritmati. Come vivificare invece il magistero di Pollock? Parimenti: saturando la superfice, ma traducendo la ragnatela delle filature stratificate di colore in quella dei tracciati virtuali. Lavorano entrambi in orizzontale, dentro al quadro. Se Pollock procede però centrifugamente stabilendo solo alla fine del processo la dimensione del quadro, Castellani ne decide preliminarmente sia la misura sia il sistema che ne guida l’iter e l’esito.
Nell’affrontare la terza antinomia, quella tra superficie e spazio, incontriamo nuovamente Pollock ma nel suo paese dove, già maestro indiscusso dell’Espressionismo Astratto, è il riferimento delle ricerche post-espressioniste. “Il nuovo lavoro assomiglia ovviamente più alla scultura che alla pittura, ma esso è più vicino alla pittura…Nei quadri di Pollock, Rothko, Still e Newman e più di recente in quelli di Reinhardt e Noland, il rettangolo è enfatizzato. Gli elementi interni sono ampi e semplici e corrispondono strettamente al rettangolo. Le parti sono poche e così subordinate all’insieme da non essere più parti nel senso comune del termine. Il quadro è quasi un’unità, una totalità e non la somma di un gruppo di entità”, così lo scultore Donald Judd, nel testo canonico del ’65 “Specific Objects”, redatto un anno prima della consacrazione del minimalismo nella mostra “Primary Structures” al Jewish Museum di New York. Castellani è l’unico artista italiano nominato. “Alcune pitture europee si relazionano agli oggetti, quelle di Klein, ad esempio, e quelle di Castellani, che presentano campi indifferenziati di elementi a basso-rilievo”. La lettura è precisa e puntuale. Di due anni più grande di Castellani, dopo esordi astratto-espressionisti, tra il 1961 e i due anni successivi Judd compie il passo decisivo dalla superficie allo spazio. Inspessisce dapprima la superficie con cera, sabbia e oggetti, ne incurva la base e la sommità per approdare infine nel 1963 alle sequenze di volumi tridimensionali, a terra o a parete. Oggetti, sia chiaro, non sculture. E teorizza: “Tranne che per un campo di colore totale e senza variazioni, qualunque cosa che trovi spazio in un rettangolo o su un piano suggerisce qualcosa in o su qualcos’altro…Le tre dimensioni sono spazio reale. Questo risolve il problema dell’illusionismo e dello spazio letterale, dello spazio dentro e intorno ai segni e ai colori – la soluzione cioè di uno dei residui principali e più discutibili dell’arte europea”. Illusionismo, composizione e relazionalità ossessionano gli artisti americani della generazione di Castellani; il loro superamento è la prova dell’emancipazione dall’arte europea: Pollock versus Mondrian, ripetizione, serialità e modularità versus composizione.
“Il mio legame è ovviamente con la pittura geometrica ma i miei presupposti non hanno nulla a che vedere con quella europea. I pittori geometrici europei inseguono quella che chiamo pittura relazionale. La base della loro idea è l’equilibrio. Fai qualcosa in un angolo e lo equilibri con qualcosa in un altro angolo. La “nuova pittura” si caratterizza come simmetrica. Le mie cose sono simmetriche perché voglio liberarmi di ogni effetto compositivo», così Frank Stella in dialogo con Judd nel 1960. Tra i pittori vicini al “nuovo lavoro”, Judd però non lo nomina. Eppure, i quadri a strisce esposti nella mostra “Sixteen Americans” nel ’59, lo stesso anno della prima “Superficie a rilievo” di Castellani, sono una vera rivoluzione, come quelli successivi in cui il supporto viene sagomato per assecondare la forma della pittura. Identificando pittura e supporto, Stella elimina ogni dialettica tra figura e sfondo, dunque ogni illusionismo, e trasforma il quadro in oggetto. Judd ne è consapevole. “I quadri sagomati di Stella presentano molte importanti caratteristiche del lavoro tridimensionale. Il profilo esterno del quadro e le linee interne corrispondono. Le strisce in nessun luogo appaiono come parti distinte. La superficie è più lontana del solito dal muro, sebbene rimanga parallela ad esso…L’ordine non è razionale e sotteso ma è semplice ordine, quello della continuità, una cosa dopo l’altra”. Delle “Superfici” di Castellani Judd sottolinea giustamente il carattere indifferenziato, dunque anti-compositivo e anti-relazionale e, parlando di basso-rilievi, ammette trattarsi di una tridimensionalità reale, letterale, anti-illusionistica. Quella generata dalla superficie stessa quando sottoposta alla massima tensione da due forze uguali e contrarie. Un processo reversibile: togliendo la sollecitazione, la tela torna allo status originario, quello bidimensionale. “Dare alla superficie una dimensione diversa da quella che gli potevano dare la pittura e il graffio”, questo l’intento. Judd avrebbe potuto aggiungere che i rilievi e le cavità si susseguono sulla superficie “in semplice ordine, uno dopo l’altro”, secondo gli stessi principi aritmetici e leggi proporzionali che regolano le strisce di Stella e la disposizione degli “oggetti specifici” nello spazio. Se allora per Judd e Stella le tele sagomate sono il primo passo verso lo sconfinamento nello spazio reale, Castellani, che non è interessato all’oggetto ma allo spazio, costruisce superfici tridimensionali, di nuovo una contraddizione in termini.
Così facendo, sfida l’assunto del grande mentore Clement Greenberg nel testo “Modernist Painting” del 1961: “L’unica e specifica area di competenza di ciascuna arte coincide con ciò che è unico nella natura del suo medium”. Nel caso della pittura, “la bidimensionalità, unica condizione che la pittura non condivide con nessun’altra arte”.
Il rapporto tra arte e architettura, infine. Premetto: nel complicato e bellicoso rapporto tra le due discipline, Castellani è un esempio virtuoso: architetto e artista, mantiene nettamente distinti i due ambiti: alle prese con lo spazio, lo anima da pittore mentre quando opera sulla superficie calcola e costruisce come un architetto. “L’architettura l’ho sempre solo studiata, comunque avevo sempre quest’idea di fare il pittore…qualcosa certamente c’è come formazione culturale e anche come capacità tecnica di progettazione… Gli architetti di riferimento erano Marcel Breuer e Mies van der Rohe… mentre studiavo, lavoravo in uno studio di giovani architetti, collaborando con Constantin Brodzki per un padiglione in legno, una grande cupola… ma questo nel 1956… nel 1958 ero già a Milano”, dove lavora nello studio dell’architetto Franco Buzzi. Specifica altrove di aver conseguito precedentemente il diploma da geometra, che sebbene al di sotto di quello da ingegnere gli aveva fornito buone basi costruttive. In quest’ottica, l’opzione per Mies van der Rohe e dunque per il neoplasticismo non è affatto casuale. Il Padiglione di Barcellona, ad esempio, è il frutto della decostruzione, dello smontaggio dell’involucro architettonico in piani bidimensionali riassemblati poi liberamente, scongiurando ogni chiusura. Ogni volta che Castellani si trova alle prese con un contenitore, ad esempio una scenografia, applica quella lezione alla lettera: nel 1978, al teatro Massimo di Palermo due setti bianchi convergono verso la parete di fondo senza agganciarsi a essa; analogamente ma in modo ancora più radicale, nel 2012, nel progettare la cornice per una performance al teatro Studio Krypton di Scandicci a Firenze, le due pareti bianche laterali sono palesemente staccate da quella di fondo, mentre il Muro del tempo al centro dello spazio segue il suo ritmo, dissonante da quello delle superfici, dissonante da quello dei danzatori. Persino un piccolo olio su tela del 1952, Skyline, pubblicato sul terzo volume del catalogo generale, pensato originalmente per il soffitto, mostra quattro concatenazioni, sorta di grattacieli, che convergono senza incontrarsi. Nell’”Ambiente bianco” del 1970, esposto nel 1967 a Foligno nella notissima mostra “Lo spazio dell’immagine”, l’operazione è analoga. L’artista parte dalle superfici rigorosamente bianche, animate da traiettorie virtuali contraddittorie e destabilizzanti e le collega con superfici angolari di pari colore. Di nuovo, la consapevolezza dell’ architetto che l’angolo costituisce il punto critico dell’architettura, lo porta a sfuggire la cesura e a optare per la continuità. Uno spazio autonomo, certo, ma, così smaterializzato, privo di coordinate fisiche e di punti di riferimento, angosciante e vertiginoso, invivibile. Quando dichiara: “La tela tirata agli angoli del mio ambiente era una ripresa dei vecchi angolari”, Castellani è consapevole che Ambiente bianco è l’approdo della ricerca sulle Superfici trapunte e, dal 1961, su quelle sagomate ad angolo. Non è un caso se nel tempo l’artista abbia abbandonato la ricerca sulle tele sagomate a baldacchino, sui dittici, trittici, mandala, certamente più accattivanti, arricchendo invece, soprattutto nella sua ultima stagione creativa, quella sulle superfici angolari e biangolari. Perché, diversamente dalle tele sagomate degli artisti americani, l’avanzamento verso lo spazio non è preludio all’uscita dal quadro. Castellani è “oltre la pittura”, come spiega Fontana, ma non “oltre il quadro”. Non è interessato alla creazione di spazi e ambienti inediti, ma “alla sparizione della dimensione fisica” di quelli esistenti: agisce cioè nello e sullo spazio dato per renderlo il meno fisico e stabile possibile. Lo fa con le Superfici a rilievo che increspano all’improvviso le pareti su cui sono appese, lo fa con gli angolari che sconfiggono l’ortogonalità della scatola architettonica. Assai eloquente è la Superficie curva bianca del 1964, installata nell’atrio di un edificio progettato da Nanda Vigo. Al suo cospetto non si può non pensare ai soffitti e ai pavimenti di Fontana, trafitti da buchi, tagli, traiettorie di luce, frutto di un gesto violento e irreversibile per rompere il limite fisico dell’architettura, la costrizione dello spazio tridimensionale. Un gesto troppo radicale per Castellani che preferisce restare in questo spazio additandone le criticità e inquietandone la fruizione. Di qui anche la profonda differenza con l’Ambiente nero di Fontana esposto nella stessa mostra del 1967 a Foligno. Anziché annientare lo spazio euclideo nel buio, Castellani lo dilata, smaterializza e destabilizza. “Penso che sia illegittimo e pretenzioso voler deformare lo spazio in maniera definitiva ed irreversibile, con la presunzione oltre tutto di voler incidere nella realtà: si tratta nella migliore delle ipotesi di una operazione inutile. Al massimo è lecito strutturarlo in modo da renderlo percettibile e sensorialmente fruibile; lo spazio in fondo ci interessa e ci preoccupa in quanto ci contiene”. Proprio in questo costante e fervido travaso disciplinare, rispettoso delle singole specificità ma prodigo di indicazioni e suggerimenti reciproci, Castellani ci indica la via maestra del dialogo tra l’arte e l’architettura.