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Arteinmemoria

in D. Borrelli e P. Di Cori (a cura di), Rovine future, Lampidistampa, Milano. Atti del convegno “Que reste-t-il? Rovine future. Resti e rifiuti come depositi del possibile”, Dipartimento Scienze Sociali e della Comunicazione, Università del Salento, 6-7 novembre 2008

 

«Arteinmemoria» è una biennale di arte contemporanea ospitata nelle rovine della sinagoga di Ostia antica, tra le più antiche testimonianze archeologiche dell’ebraismo della Diaspora. Inaugurata il 16 ottobre 2002, il 25 gennaio 2009 la rassegna apre la sua quinta edizione. Al termine di ogni appuntamento espositivo, alcuni lavori rimangono in permanenza sul luogo: a memoria dell’iniziativa, primo embrione di museo di arte contemporanea in un sito archeologico.

Non deputata all’arte, la sinagoga non è affatto indifferente a quanto le accade intorno, anche in ambito politico e istituzionale. La periodicità della mostra, e il fatto che sia sostenuta esclusivamente da istituzioni pubbliche, consente infatti sistematici monitoraggi sullo stato di salute di queste ultime e sui riverberi delle loro trasformazioni sull’iniziativa stessa. Il capovolgimento all’interno dell’amministrazione capitolina e gli apprezzamenti espressi dal sindaco Alemanno sul regime fascista hanno ad esempio impedito di accedere ai finanziamenti comunali per «Arteinmemoria 5», fra i cui capisaldi c’è proprio l’impossibilità di alienare la memoria degli eventi dal loro contesto storico.

Quale il senso di invitare artisti contemporanei a progettare un lavoro sulla memoria senza neppure specificarne l’oggetto? La risposta coinvolge la relazione fra storia e memoria, fra arte contemporanea e storia dell’arte, tra opera e luogo. Sostanzialmente, significa invitarli a procedere secondo un’attitudine già propria a ogni artista contemporaneo: partire dal presente e rileggere criticamente il passato per aggiornarne la lezione. L’opera è traccia di questo atto critico, del corto circuito tra spazialità e temporalità distanti: è parziale, settaria e problematica; guarda ai morti ma per parlare ai vivi; corre in avanti ma con la testa rivolta all’indietro, come l’Angelus Novus di Walter Benjamin e di Paul Klee.

Lo spiega bene Jannis Kounellis, uno dei massimi artisti contemporanei:

«Ritengo che un’opera d’arte per esistere come tale, debba nascere da una necessità storica, vivere una situazione storica e costituirsi come linguaggio irrinunciabile in quel momento. […] Ricerco, in frammenti (emotivi e formali), la storia dispersa. Ricerco in modo drammatico l’unità, seppure difficile a cogliere, seppure utopica, seppure impossibile e, perciò, drammatica. Non riuscirò a ricomporre la totalità ma l’onesto tentativo di un pittore è tentare, non rinunciare alla difficoltà che la storia gli presenta sul piatto, intraprendere questo viaggio lunghissimo»[1].

 

L’opera d’arte, come la memoria, non pretende la compiutezza della storia; rivendica anzi il proprio status frammentario e parziale. Per questo ipotizziamo che il procedere degli artisti contemporanei, teso a rivivere il passato con spirito contemporaneo, sia simile a quello della memoria ebraica, mirabilmente esplicitato da Yosef H. Yerushalmi in Zakhor. Nonostante la memoria sia componente fondamentale dell’identità ebraica, spiega lo studioso, la sua custodia e trasmissione non è mai affidata alla storia. Laddove quest’ultima mira a una ricostruzione totale del passato, colmando ansiosamente lacune, reperendo prove, moltiplicando nessi e dettagli, la memoria è selettiva, frammentaria, sconnessa; assembla liberamente e tematicamente, incurante di successioni e cronologie; è, insomma, storicamente scorretta. «I rabbini giocano a loro piacimento con il Tempo, espandendolo o contraendolo: mentre la specificità storica è un tratto distintivo delle narrazioni bibliche, qui la coscienza del tempo e del luogo cede il passo al più sfacciato e forse inconsapevole anacronismo»[2]. Gli eventi contemporanei sono interpretati alla luce di quelli trascorsi; quelli passati, rivissuti e vivificati dal presente. Esemplare il racconto di Pasqua quando la famiglia, riunita intorno al desco imbandito, recita: «Che ogni persona, in ciascuna generazione, consideri se stesso come se fosse personalmente uscito dall’Egitto». Nell’annullamento del tempo storico, nel privilegiare il significato e il valore simbolico sul contesto, ogni evento è contemporaneo.

Agli artisti invitati ad «Arteinmemoria» si chiede di creare un dialogo, un corto circuito con un luogo millenario la cui storia s’interseca e intreccia con quella della cultura occidentale. E nello scambio biunivoco risiede il significato e il successo dell’iniziativa: se il lavoro acquista dalla sinagoga un nuovo «commento», la sinagoga, condannata allo stato di rovina, torna a vivere grazie all’arte e rinnova così la sua vocazione all’ospitalità, allo studio, al dialogo, al confronto tra linguaggi diversi e dissonanti.

 

Il luogo

L’ebraismo è il solo grande culto che considera una rovina il più sacro dei luoghi: quella del Secondo Tempio, distrutto da Tito nel 70 d. C. e mai più ricostruito. Proprio l’assenza di un legame univoco consente alla tradizione orale di mantenersi viva e arricchirsi nei secoli. La memoria di quel luogo è però nelle migliaia di sinagoghe che da allora sono erette in ogni insediamento ebraico, sorta di sostituto simbolico del Tempio. Dal I secolo della nostra era, la sinagoga si conferma il centro della vita quotidiana degli ebrei, luogo di culto, lettura, studio e insegnamento della Torà. Nonostante la loro architettura sia influenzata dal contesto socioculturale, le sinagoghe presentano alcune costanti: l’orientamento a est, verso Gerusalemme, la vicinanza alla linea di costa, la presenza di fonti d’acqua, dell’armadio con i Rotoli della Legge, di ambienti per l’ospitalità. Quella di Ostia antica, edificata probabilmente a seguito della costruzione del porto voluto dall’imperatore Claudio (42-54 d. C.), è oggi una rovina: come spiega Gérard Wajcman, è «un oggetto più la memoria dell’oggetto, l’oggetto consumato dalla sua stessa memoria […] oggetto divenuto spugna storica, un accumulatore di memoria»[3].

La sua posizione ribelle è leggibile già nella planimetria generale del sito archeologico: rifiuta allineamenti e parallelismi, con il cardo e il decumano, gli assi generatori del castrum repubblicano, ma anche con le direttrici che, da quel centro, si irradiano sul territorio, verso il mare o verso il Tevere, orientando un’espansione urbana nient’affatto caotica. Invisibile dall’ingresso al sito, come pure dal fulcro monumentale con il portico di Pio IX, il Foro, il Campidoglio e il tempio di Roma e Augusto, la sinagoga è percepibile solo a distanza ravvicinata, percorrendo il decumano verso porta Marina.

Appaiono per prime le quattro colonne monumentali che segnano il passaggio al luogo di preghiera, contraddistinto dall’altare, da un lato, e dall’edicola semicircolare per la custodia dei Rotoli della Legge, dall’altro. È una sorta di stanza di compensazione fra la realtà esterna e il mondo sacro. L’edicola, centro geometrico e simbolico, è preceduta da due colonnine le cui mensole, decorate con la lampada a sette braccia, il corno di montone e il fascio di erbe accompagnato da un cedro, sorreggono ancora i resti della trabeazione. La presenza di numerosi ambienti, di una cisterna, del forno per cuocere le azzime e di banconi alle pareti, conferma che la sinagoga era attrezzata per l’accoglienza ai viaggiatori, ai mercanti, ai poveri, agli stessi officianti del culto.

Eretta nel I secolo, la sinagoga di Ostia antica è la più antica di Occidente, se si eccettua quella di Delo. Ingrandita nei due secoli successivi, è restaurata tra il III e il IV secolo, per essere poi abbandonata a partire da quello successivo. Scoperta nel 1961, nel corso dei lavori per l’autostrada di Fiumicino, ospita saltuariamente riti religiosi ma è fruita sostanzialmente come sito archeologico. Il restauro ne ha preservato lo stato frammentario, ricostruendo solo ciò che era accertato dalle fonti e rendendo comunque leggibili le integrazioni. In assenza di testimonianze storiche, attesta la presenza ebraica all’interno del contesto polietnico e multiculturale di Roma imperiale.

«Arteinmemoria» non è il primo caso di riconversione di una sinagoga in spazio espositivo. L’idea nasce infatti dalla vicenda della sinagoga di Pulheim vicino a Colonia. Costruita nel 1882 in austero stile neoromanico, sopravvissuta alla sua comunità perché venduta a un agricoltore, è dal 1990 impegnata da una comunità di artisti che ogni anno, una volta l’anno, realizzano un lavoro appositamente per il luogo. La sinagoga di Pulheim e quella di Ostia circoscrivono un arco temporale che va dall’esilio alla Shoah. Dopo la distruzione del Tempio c’è la Diaspora e la disseminazione delle sinagoghe; dopo il nazismo e la distruzione delle sinagoghe c’è Israele, l’auspicata sicurezza dello Stato. Agli antipodi di quella di Ostia, la sinagoga di Pulheim è stata restaurata secondo il criterio del ripristino della condizione originaria.

 

Nella «Giornata della memoria»

Nonostante «Arteinmemoria» non sia legata specificatamente alla memoria della Shoah, la sua inaugurazione ha luogo il 27 gennaio, «Giornata della memoria», istituita nel 2000 dai parlamenti europei in coincidenza con la data d’apertura dei cancelli di Auschwitz. Un’iniziativa sulla cui opportunità nessuno dubita ma che rischia di risolversi spesso in una frenesia di eventi commemorativi che si concludono nel breve lasso di una giornata. Contro tale rischio «Arteinmemoria» coinvolge la comunità degli artisti, generalmente non addetti ai lavori, imponendo i tempi lunghi di una mostra site specific, con tanto di visita preventiva al luogo, elaborazione del progetto e realizzazione del lavoro, esposizione e infine presentazione del catalogo. La legge istitutiva della Giornata suggerisce del resto cerimonie, iniziative, incontri, «su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro paese e in Europa, e affinché simili esempi non possano mai più accadere». Affermare il valore della memoria come mezzo di conoscenza, dunque di prevenzione, vuol dire conoscere le cause e il contesto del suo oggetto, mentre ricordare affinché ciò che è stato non abbia più a ripetersi significa riconoscerne i sintomi sotto mentite spoglie, in altri luoghi, epoche e circostanze, oggi, intorno a noi. È accaduto, quindi può riaccadere, ammonisce Primo Levi, anche un unicum come la immane tragedia della Shoah. Perciò, isolare la Shoah dagli eventi storici che l’hanno prodotta equivale a mitizzarla, dunque a non renderla storicamente riconoscibile, a non creare gli anticorpi contro la sua possibile ripetizione. Come avverte Tzvetan Todorov:

«Dobbiamo mantenere viva la memoria del passato: non per chiedere risarcimenti per l’offesa subita, ma per restare attenti di fronte al manifestarsi di situazioni certamente nuove, ma a volte analoghe. Il razzismo, la xenofobia, l’esclusione degli altri, non sono identiche a quelle di cinquanta, cento o duecento anni fa; nondimeno noi dobbiamo, in nome di questo passato, agire sul presente. Ancora oggi, la memoria della seconda Guerra Mondiale è viva in Europa, sostenuta da innumerevoli commemorazioni, pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche o televisive; ma la ripetizione rituale del “non bisogna dimenticare” non ha alcuna visibile incidenza sul processo di purificazione etnica, di torture e di esecuzioni di massa che nello stesso tempo si verificano all’interno stesso dell’Europa»[4].

 

Nel rivendicare il valore etico e creativo della diversità, la cultura gioca un ruolo decisivo e insostituibile. Di qui il valore di «Arteinmemoria» negli scavi di Ostia. Se la sinagoga è simbolo dell’esilio, dunque di sofferenza e pericolo, l’accoglienza riservatale dall’insediamento romano conferma che la convivenza tra realtà etniche, religiose, culturali diverse è possibile.

Si assiste invece da tempo a un allarmante scollamento tra storia e memoria, il cui esito è l’inevitabile deriva di entrambe. All’«eccesso» di memoria che caratterizza quella che con termine felice Annette Wievorka ha definito l’«era del testimone», espresso dal moltiplicarsi forsennato di musei, memoriali, commemorazioni, si accompagna, sul versante storico, un processo revisionistico di grande portata che ridimensiona, parifica, pacifica diversità, identità e culture. Come se la caduta del muro di Berlino nel 1989 avesse azzerato ogni capacità di giudizio storico ed etico, rendendoci inabili a distinguere tra bene e male, tra vittime e carnefici, tra vincitori e vinti.

«Sussiste a tutt’oggi non un difetto ma un eccesso di memoria […]. La memoria sembra dissociarsi dalla storia, strutturandosi come un complesso di narrazioni unificate dalla riflessione sullo statuto di vittima ed espungendo dal campo visuale e analitico quanto da quest’ultimo esula o residua […]. Questo fenomeno si incrocia, non casualmente, con l’inflazione di discorsi vittimistici che intasano la comunicazione politica odierna, laddove tutti ambiscono a qualificarsi come destinatari delle altrui vessazioni, sovrapponendo le proprie storie a quella storia. Il risultato è una cacofonia comunicativa, una babele di messaggi dove le vicende e i soggetti si fanno indistinti e indistinguibili, creando nessi di equivalenza che annullano aprioristicamente i diversi livelli di esperienza e quindi la comprensibilità della storia», opina Claudio Vercelli[5]. Quale il rimedio? «Ripristinare il rapporto tra consapevolezza storica e coscienza civile […]. Ciò richiede il recupero del gusto alla critica radicale, la non acquiescenza intellettuale, l’inquietudine culturale, morale e politica poiché una società indifferente e “pacificata” deflette da quella funzione di trasmissione culturale tra generazioni che è alla base della sua stessa continuità»[6].

 

E chi meglio di un artista contemporaneo può incarnare «critica culturale, non acquiescenza intellettuale, inquietudine culturale, morale e politica»?

Una ricomposizione del dissidio storia-memoria che assuma la testimonianza come fonte storica privilegiata, è certamente la strada maestra da percorrere. Con un’accortezza: lo storico deve leggere, ascoltare o guardare le testimonianze,

«senza mai cercarvi ciò che sa di non potervi trovare» relativamente a eventi, luoghi, date e cifre, ma consapevole «che esse racchiudono una straordinaria ricchezza: l’incontro con una voce umana che ha attraversato la storia e, indirettamente, non la verità dei fatti ma quella più sottile eppure altrettanto indispensabile di un’epoca e di un’esperienza»[7].

 

Artisti e opere

Nel passare la parola ad alcuni artisti, mi piace iniziare con due lavori eloquenti di altrettanti modi di intendere la memoria, la relazione con la storia, l’attualità e il luogo.

Il primo è Untitled di Sol LeWitt. Da americano che si rispetti, LeWitt detesta le rovine ma, come ebreo, sa che quelle del Tempio, verso cui volge ogni sinagoga della Diaspora, sono il più sacro dei luoghi. Sceglie il cuore della sinagoga, dove sono custoditi i Rotoli della Legge e ne decide la ricostruzione. Non si mortifica, però, nel mero ripristino filologico: assume infatti forma e dimensioni dell’originale per restituirlo con materiali e tecnica attuali. Non solo. Trasferendo il setto murario curvo all’esterno del recinto sacro, ne traduce la natura funzionale in quella artistica. Tra i protagonisti dell’arte minimalista, LeWitt non deroga al suo linguaggio: l’opera è una struttura modulare ma, nel contesto della sinagoga, non può sottrarsi al confronto con la sua fonte di ispirazione.

Pur nell’adozione dello stesso materiale, il mattone, la soluzione dell’artista portoghese Pedro Cabrita Reis è antitetica. Intorno alla possente quercia nel prato adiacente alla sinagoga, erige infatti un paesaggio di rovine: ventuno colonne grezze di mattoni e cemento con qualche inserzione sporadica di frammenti lignei. E spiega:

«Possono o non possono aver fatto parte di una costruzione e, vedendole, non è chiaro se siano state fatte da un muratore esperto e poi abbiano subito qualche evento brutale o siano state semplicemente vittime del trascorrere del tempo. O, forse, queste 21 colonne, fragili nella loro rozzezza, sono sempre state un relitto: uscite dalle mani dei loro costruttori alle soglie della vita hanno vissuto l’agonia della violenza e della speranza, nel tentativo di ricostruire un luogo e di reinventare la loro stessa memoria (opposta alla storia)»[8].

 

Parole inquietanti ed enigmatiche. Morte naturale o violenta di un insediamento? Oppure rovine ab origine, di provenienza ignota, con cui edificare un luogo? Nella seconda ipotesi, saremmo al cospetto non di una costruzione in rovina, vittima del trascorrere del tempo, ma di una costruzione di rovine; la rovina, cioè, quale materiale costruttivo, metodologia progettuale, metro poetico. Con una sola certezza: la memoria, espressa dalla rovina, è «opposta alla storia». Se infatti quest’ultima, prosegue Cabrita Reis, è «una carovana nel deserto»[9], con una rotta precisa e un sistema astronomico di riferimento, la memoria è i suoi detriti, abbandonati lungo il tragitto, con cui l’artista costruisce un’altra storia, ondivaga e spaesata, precaria e temporanea. Tant’è che: «L’osservatore pensa di riconoscere quello che vede ma è incapace di determinare con precisione i contorni di ciò che riconosce. Restando con la sensazione di “mi sembra di conoscerlo”»[10]. Per Cabrita Reis, dunque, storia e memoria sono contrapposte: da un lato la rovina, il frammento, il residuo, la nostalgia, la precarietà, di cui si nutrono la memoria e l’opera d’arte, dall’altro il cammino progressivo e rettilineo della storia, intero e orientato. E non ha dubbi per chi optare:

«Sono un raccoglitore di memorie […] di misteri, di segni. È come essere in un uragano che risucchia tutto: case, tetti, macchine, cani e gatti. E quando il vento si placa, deposita tutta quella roba e va da un’altra parte, lasciando una sorta di sito archeologico… che noi ricostruiamo e formiamo nuovamente […]. Il mio lavoro non ha nulla a che vedere con l’autenticità, con l’essere se stessi, con l’unicità. È su ciò che rimane […]. Un desiderio profondo di sopravvivere, forse»[11].

 

Ci permettiamo di dissentire, preferendo l’integrazione all’opposizione. La memoria, ossia la testimonianza viva e personale del passato, è e deve essere una fonte preziosa per la storia, aprendola ad angolazioni inedite. L’opera d’arte è tanto più efficace e incisiva quanto più provoca uno scatto, una deviazione, rispetto al percorso storico che la precede e che rende la sua apparizione indispensabile, credibile e attendibile. Come il frammento, che conserva in sé il segno dell’intero e di chi l’ha creato e non deve anelare a ripristinarlo mendacemente, così l’opera d’arte contemporanea è per sua natura frammentaria, critica, libera e spregiudicata ma contiene in sé il germe e la consapevolezza della totalità cui appartiene.

Così, al cospetto delle rovine del sito archeologico, frutto del trascorrere lineare del tempo, se LeWitt ne contrasta il decorso con una nuova costruzione, Cabrita Reis ritiene che un’opera contemporanea non possa che essere una rovina.

Quanto agli altri artisti, che hanno ormai raggiunto quota trenta, possiamo raggrupparli a seconda dell’approccio al tema o al luogo.

Alcuni focalizzano l’attenzione sulla struttura architettonica, soprattutto sullo scarto tra l’intero di ieri e il frammento di oggi.

Commovente l’intervento di Jannis Kounellis che ripopola la sinagoga con una moltitudine di esseri viventi. Una gabbia di rete di ferro occupa due ambienti contigui; la sua altezza raggiunge la sommità delle quattro colonne che segnalavano un tempo il vano d’ingresso. La struttura, a tre piani, ha l’ardire di chiudere uno spazio aperto da millenni ma anche la modestia di rispettarne le dimensioni originarie e, soprattutto, la visione globale che il suo stato di rovina consente da ogni punto. È abitata da una folla «multietnica» di uccelli, la cui dimensione, colore, valore variano con il procedere in altezza: al piano terra i pavoni, simbolo di immortalità, attributo di Giunone, personificazione della superbia, ricorrono nei mosaici di epoca ellenistico-romana e, soprattutto, in quelli bizantini. Gli abitanti dei piani superiori, invece, sono assai meno ricchi e sgargianti, il loro colore vira al monocromo, mentre la dimensione diminuisce progressivamente. Questa sorta di prospettiva rovesciata accentua la verticalità dell’opera, e non solo in accezione fisica: verticalità, infatti, è per Kounellis sinonimo di centralità, identità, concentrazione, contrario di orizzontalità, globalizzazione, dispersione. Ripopolare oggi la sinagoga, simbolo dell’esilio, conferma la validità e vitalità della Diaspora.

«Nella antica sinagoga di Ostia, la fantasia risveglia le tracce del passato e le fa rivivere. Le rovine si trasformano in un edificio. I muri involucrano nuovamente lo spazio. Siamo ancora qui o eravamo già lì? La fata morgana si erge sulle fondazioni dei suoi stessi resti. Erriamo nella realtà e procedendo dritti attraversiamo i muri. Apri con grande attenzione le porte (che non esistono) e camminando in punta di piedi e in silenzio entra nello spazio infinito a perdita d’occhio. E osserva come, nonostante nulla sia rimasto, tutto sia ancora lì»[12]

 

Così commenta l’artista olandese Jan Dibbets a proposito di Sinagoga Ostia Antica. L’edificio, i muri, lo spazio cui allude non sono evidentemente né quelli originari né la loro ricostruzione, ma l’idea di edificio, di muro e di spazio che, appena percepibile, consente l’azzeramento di distanze siderali e il dialogo tra passato e presente. Assunte le quattro colonne superstiti come unità di misura, Dibbets disegna alla loro altezza un perimetro aereo di foggia rettangolare ancorando fili elastici bianchi a quattro pilastri di ferro situati esattamente ai quattro estremi del campo. Altri due fili incrociati a X fungono invece da parete virtuale. Dibbets confronta così la realtà dell’edificio in rovina con quella originaria, ma astratta, mentale.

Numerosi artisti lavorano invece sul o con il frammento.

Come Giulio Paolini, che lo impiega soprattutto come esito della frammentazione di calchi di statue antiche. Se la statua classica è infatti l’espressione più compiuta di opera d’arte, i suoi frammenti esplicitano l’impossibilità per l’artista contemporaneo di raggiungere quella compiutezza ideale. Ma, a Ostia, Scrittura privata affida per la prima volta i suoi frammenti a un luogo di rovine: sessanta, come i 60 minuti dell’ora, sparsi su un’area di 60 metri quadrati. Su di essi l’artista scrive, con inchiostro indelebile, un testo «a memoria». Illeggibile perché frammentario, sarà anch’esso in balia del tempo e delle intemperie. Due i riferimenti suggeriti da Paolini: altri frammenti, come le rovine della Biblioteca di Pergamo o quelli del vaso cinerario della contessa Lodovica Callemberg di Antonio Canova, oppure immagini del tempo, quali L’enigma dell’ora di De Chirico, che sottotitola l’opera.

Anche Invisibile di Giovanni Anselmo è un frammento: poggia all’esterno della sinagoga, tra altri frammenti antichi, ma dissonante per forma, dimensione e colore. Non si mimetizza ma dialoga con l’esistente. Volge a est, verso Gerusalemme, assecondando l’orientamento della sinagoga.

«La maggior parte della realtà è invisibile e sono le cose visibili a darci la possibilità di desumere l’invisibile. Analogamente all’opera “invisibile” in cui l’invisibile si rivela contiguo al dato visibile, la visione delle vestigia della sinagoga induce a evocare e a immaginare l’invisibile di altri momenti»[13], dichiara Anselmo, forse l’artista che ha espresso più emozione, sgomento e senso di inadeguatezza al cospetto del luogo. Un parallelepipedo di marmo nero d’Africa reca incisa la scritta «visibile». Il blocco è  tagliato su un lato; presuppone infatti una porzione invisibile, infinita e incommensurabile, quella che rende l’opera completa ma «invisibile». «Ho voluto creare un’opera invisibile. Se voglio, però, verificare l’invisibile, ciò è possibile solo mediante il visibile. Se voglio materializzare l’invisibile, questo diventa immediatamente visibile. L’invisibile è quel visibile che non si può vedere»[14]. Come il frammento rispetto all’intero.

Un gruppo di artisti si assume infine il rischio di cimentarsi con il tema della Giornata della memoria, della Shoah, del carattere ebraico del luogo, persino della relazione tra Diaspora e Israele.

«Quelle porte per ognuno si aprivano una volta per tutte. Si entrava e non si usciva o si usciva e non si rientrava più», spiega Massimo Bartolini con riferimento ai cancelli di Auschwitz. E Apertura, che titola il suo intervento, sceglie infatti un cancello adiacente alla sinagoga, lungo il recinto degli scavi. Di servizio, è attivato di rado e solo da personale addetto. «La porta rende permeabile un luogo progettato per essere impermeabile, se una porta si apre e si chiude è una porta aperta e il luogo permeabile». Bartolini ne manomette il meccanismo senza sostituirlo; esaspera quello esistente, intimandogli di aprirsi e chiudersi in continuazione. «La porta è disattivata, istupidita attraverso l’accelerazione del ciclo di aperture-chiusure: il lavoro che dovrebbe fare in un anno lo fa in un giorno. La chiusura per essere deve essere per sempre, l’apertura un attimo». «Disattivare iperattivando – aggiunge –, forse in Occidente non siamo ancora così iperattivi da disattivarci e fare sì che il mondo altro entri». La poetica di Bartolini si fonda sul sovvertimento di funzioni, codici e significato degli elementi messi in gioco, in primis spazi abitati come le stanze, in primis porte e finestre. Ostia non fa eccezione: se il cancello chiuso allontana i visitatori dalla sinagoga, nel piccolo sabotaggio di Bartolini essa diventa perennemente accessibile. «Una porta come quella fatta per star chiusa e che invece continuamente si muove si presenta come uno sbaglio, come una architettura sabotata, istupidita, umoristica e inquietante. Mi viene in mente che questa porta permetta il passaggio a persone e cose invisibili»[15]. È come un miraggio, della libertà sognata dai prigionieri del campo ma anche da tutti gli esseri umani vittime di sopraffazioni e ingiustizie, di convenzioni e conformismi. Auschwitz come emblema di discriminazione, persecuzione e sterminio.

Sorprendente The ReCollection Mechanism, l’installazione ipogeica dell’artista tedesco Arnold Dreyblatt, in occasione della prima edizione.

Una griglia di filo metallico, sospesa in uno spazio completamente buio, costruisce un enorme rotolo che si avvolge su se stesso. I testi tratti da Who’s Who su di essa proiettati appaiono magicamente sospesi nello spazio. Non solo. Il pubblico partecipa alla ricerca, effettuata da due computer, di parole e nomi sul database che, una volta identificate, vengono lette ad alta voce. Il lavoro è di grande impatto visivo ed emotivo: il «documento» diventa «monumento», ma immateriale e mutevole, un vuoto animato da testi e voci.

Nel 1985 Dreyblatt trova per caso, in un negozio di libri usati di Istanbul, una copia di Who’s Who in Central & East Europe 1933, un dizionario biografico di diecimila voci: ecclesiastici, diplomatici, impiegati, tecnici, educatori, militari, industriali, giornalisti, pittori, scultori, scrittori, di varia provenienza, dall’Albania all’Estonia, dalla Turchia alla Finlandia alla Grecia, dall’Austria alla Lituania a Danziga. Pubblicato nel 1934 a Zurigo, racconta un mondo praticamente scomparso. Il 1933 è del resto uno spartiacque nella storia tedesca ed europea, come lo sarà il 1989, data di pubblicazione del censimento successivo, Who’s Who in the Socialist Countries of Europe, fotografia di un altro mondo in via di estinzione. Questo imponente Libro della memoria diviene da allora l’ossessione di Dreyblatt. Seleziona settecentosessantacinque voci, soprattutto quelle dimenticate o «non più famose» e con esse costruisce un «ipertesto», una sorta di «visita guidata in un’architettura di informazioni biografiche». «Il mio intento non era di riscrivere la storia ma di reinventarla, nel senso di rivitalizzarla attraverso la partecipazione attiva dell’utente e del pubblico». Redige così un nuovo Who’s Who, in ordine alfabetico come l’originale, ma tematico. Esso costituirà il fulcro di tutti i lavori successivi, combinato con altro materiale, a costruire una sorta di «archivio sugli archivi» in progress che, dopo sette anni, conta già al suo attivo oltre cinquecento pagine fra testi e fotografie. Tutte le installazioni di Dreyblatt hanno carattere interattivo: si fondano su testi, che abbandonano però l’univocità della pagina per divenire architetture reali o virtuali, consultabili al computer, proiettate su schermi di dimensione ambientale o su porzioni di architettura come le travi del Jewish Museum di Berlino. «La memoria non è solo questione di tempo», spiega, «ma anche di spazio per il ricordo e l’archivio. I testi sono anche immagini, oggetti, informazione»[16].

Fabio Mauri, artista di rara cultura e sensibilità, recentemente scomparso, ha lavorato a lungo sul fascismo e la questione ebraica con performance notissime come Ebrea e Che cosa è il fascismo. A Ostia antica, si assume il rischio di un lavoro come La resa che, per il titolo, l’oggetto e la posizione, genera incomprensioni, polemiche, anche reazioni sdegnate. Una bandiera bianca issata su un alto pennone, fissata a una base solida ma flessibile, sventola sul campo antistante la sinagoga, visibile anche dal cuore del Campidoglio. Immediatamente decifrabile, quel segno è qui fortemente enigmatico: la resa di chi? Contro chi? Quando ogni segno di battaglia è cancellato dal tempo, riassorbito dalla quiete atemporale delle rovine. Ma scorrendo il testo di corredo all’immagine, troviamo un riferimento esplicito, se pur discreto e poetico, a «l’ombelico nudo delle ragazze che si fanno saltare in aria» e al «vecchio con trecce e cappello che prega e dondola nello smarrimento dell’assenza temporanea di Dio», due antagonisti, cioè, due generazioni, l’una con un futuro di disperazione, l’altro con un passato di sofferenza, che consumano la loro vita in una guerra spietata pensando di «onorare nobili cause» ma costruendo in realtà solo «terrificanti conclusioni, per i presenti e i futuri»[17]. Se il ripopolamento della sinagoga a opera di Kounellis e la ricostruzione dello scrigno dei Libri decisa da LeWitt sono interventi festosi e costruttivi che ribadiscono la funzione irrinunciabile della sinagoga, dunque dell’esilio e della cultura europea, La resa affronta l’altro scenario, ma solo per denunciare con modestia e profonda onestà la difficoltà di giudicare e parteggiare. Una condizione davvero insolita per Mauri che così si definisce: «Io non sono ebreo, né figlio di ebrei. Mi sento ebreo ogni volta che patisco ingiusta discriminazione». E ancora: «il termine ebreo come definizione per l’artista stesso. Il termine ebreo significa per me conservare il senso segreto di una remota appartenenza al senso della Storia. Dare del tu ad Abramo, se possibile, accompagnati per mano su per il monte»[18].

 

Contro il monumento

Sondiamo infine brevemente «Arteinmemoria» in accezione di monumento.

Se Wievorka fa risalire al 1961, cioè al processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme e alla drammatica sfilata di sopravvissuti che raccontano gli orrori cui sono stati vittime e testimoni, «l’era del testimone», seguita a lunghi anni di silenzio e rimozione, non c’è dubbio che l’ossessione memorialistica subisca un’impennata nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Tra le voci autorevoli levatesi contro di essa, segnaliamo quelle di Schmuel Trigano in Un non-monumento per Auschwitz e di Dario Calimani in La memoria e il suo esilio.

«Sta nascendo una “religione” del genocidio e tende a sostituirsi all’ebraismo medesimo, con le sue cerimonie, i suoi luoghi di celebrazione, dove la memoria, eretta a valore assoluto, prende il posto della fede […]. Molto spesso è unicamente da questa prospettiva che la coscienza moderna comprende l’esistenza ebraica»[19], opina Trigano. L’ansia di rappresentare supplisce la difficoltà di elaborare; l’immagine vince sulla parola, come se la pietra, il legno, il ferro, il marmo, potessero, nella loro eternità, esorcizzare l’ossessione di Primo Levi di non essere creduto. Calimani rincara la dose: «L’oralità si realizza nel tempo della sua enunciazione; la scrittura si realizza nello spazio e si vivifica nel tempo di fruizione. Vi è tuttavia un genere di scrittura che esiste soltanto nello spazio, astratta dalla dimensione temporale, ed è il monumento. È una scrittura che, revocata la propria funzione di strumento trasmissivo e stimolo per l’oralità, cessa di essere racconto e si accontenta memento fossilizzato del passato. Non il ricordo, ma un simbolo del ricordo»[20]. E incalza: «Anziché essere il monumento a sollecitare il ricordo è la memoria a tramandare come monito il ricordo di un monumento»[21]. E, ancora: «Il monumento rischia di tradursi in esilio delle emozioni: una fredda pietra tombale»; oppure: «Il monumento rappresenta il dramma collettivo e ne dice la mostruosità, ma annulla il senso della catastrofe che si è abbattuta su ogni singolo individuo»; per concludere: «Il dolore, reificato, muore esiliato nella pietra»[22].

 

Per tanti aspetti condivisibile, tale radicalità conduce inevitabilmente all’afasia e all’impotenza artistica. Vale allora chiedersi se nella pletora di «monumenti» sia possibile individuarne alcuni la cui concezione non alieni la memoria, lasci spazio alla elaborazione individuale, consenta una osmosi tra passato e presente. Ci sostiene nella scelta Todorov quando distingue tra memoria letterale e memoria esemplare. «L’avvenimento recuperato può essere letto sia in modo letterale sia in modo esemplare. Se questo avvenimento è conservato nel suo modo letterale (che non vuol dire la sua verità), resta un fatto intransitivo, che non porta al di là di se stesso […]. L’uso letterale, che rende l’avvenimento passato insormontabile, spinge in fin dei conti a sottomettere il presente al passato». Antitetico l’uso esemplare che, senza negare la singolarità dell’avvenimento, «permette di utilizzare il passato in vista del presente, di approfittare delle lezioni, delle ingiustizie subite, per combattere quelle che ci sono oggi»[23]. Se mutuiamo tali criteri nell’arte e nell’architettura, il modo letterale appartiene a tutte le espressioni che assumono il passato in modo pedissequo e acritico, modello ideale, assoluto e «insormontabile» da replicare. A esso ricorrono tutti i regimi totalitari, indipendentemente dall’ideologia che li giustifica: il neoclassicismo trionfa a Roma, Berlino, Mosca e Pechino, mentre la più vieta rappresentazione mimetica guida l’inflazione di statue che inneggiano a dittatori o a eroi, carnefici o vittime. Mentre quello esemplare aggiorna e interpreta il passato alla luce delle esigenze e del linguaggio contemporanei.

Con tali criteri di «buona selezione del passato» è possibile orientarsi nella miriade di opere commemorative. Se il United States Holocaust Memorial Museum di Washington è annoverabile in ambito letterale per la scelta di mimetizzarsi nel contesto neoclassico del Mall, a fianco degli edifici simbolo della storia americana, quello ebraico di Berlino a firma di Daniel Libeskind è esemplare: memore, nella forma scattante, del costruttivismo russo, dissonante rispetto all’edifico cui si aggancia. All’armonica forma a U del vecchio organismo Libeskind affianca infatti una linea sincopata e scattante, come una scarica elettrica spaziale. Una forma-percorso: ora claustrofobico, ora disagevole per le improvvise impennate, raramente confortante. Nel contravvenire ogni codice linguistico, nell’affidare lo spazio espositivo al tempo del percorso, nelle brusche e improvvise sterzate direzionali, nel disequilibro dei livelli, nell’inventario di millecinquecento aperture diverse l’una dall’altra, il progetto di Libeskind trova il coraggio di voltar pagina, di inventare un nuovo linguaggio, consono a una tragedia irrapresentabile con i codici a disposizione.

Esemplare del lungo e travagliato iter di elaborazione della memoria tedesca del dopoguerra è anche quello, altrettanto sofferto, del Denkmal für die ermordeten Juden Europas (Memoriale agli ebrei uccisi in Europa), a firma dell’architetto Peter Eisenman. Se l’idea risale al 1989, all’indomani della caduta del muro di Berlino, l’inaugurazione ha luogo nel maggio 2005, dopo due concorsi internazionali con oltre cinquecento partecipanti. Una difficoltà non solo poetica ma politica. La sorte dei monumenti tedeschi, del resto, è legata al dramma di dover commemorare le vittime di crimini non subiti ma perpetrati. Oscilla dunque continuamente tra l’affanno di ricordare, compensare, risarcire, e la tentazione di rimuovere. La prerogativa assoluta della soluzione di Eisenman, coadiuvato nel concorso di primo grado dall’artista minimalista Richard Serra, è di essere non un oggetto, come a Washington e Berlino, non un complesso architettonico, come lo straordinario Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma, ma un brano di città. Due ettari, nell’ex giardino della Cancelleria di Hitler, tra la porta di Brandeburgo e Potsdamer Platz, sono impegnati da 2751 monoliti di cemento variamente orientati e scanditi da percorsi claustrofobici e ondeggianti. In assenza di un centro o di un fulcro visivo forte, di un nome o di una data evocativi, lo spettatore è al cospetto di una immensa griglia deformata, sbilenca e indifferenziata: «Non è un cimitero […]. Il progetto è l’assenza stessa di significato. Ho cercato di fare qualcosa senza centro e senza bordi, che fosse muto. In tutta Berlino non c’è una sola cosa che sia muta», spiega Eisenman. E ne racconta la genesi: camminando in un campo di mais nello Iowa, dopo 100 metri perde di vista la via d’uscita. «Ho avuto paura. Ci sono momenti in cui ci si sente persi nello spazio. Ho cercato di ricreare quell’esperienza, quel fremito, quel qualcosa che non si può dimenticare mai»[24], commenta Eisenman.

 

Il contro-monumento

Impossibile dar conto di tutti i monumenti e memoriali che proliferano in Paesi, città, continenti. Rinviamo all’ampia casistica di James Young nei noti testi The Texture of Memory e At Memory’s Edge, suddivisa per aree geografiche: l’Europa, direttamente e drammaticamente coinvolta; gli Stati Uniti, distanti dalla «topografia dell’orrore», ma decisivi per la sua risoluzione; Israele, infine, «monumento vivente» alla Shoah.

Un numero cospicuo di monumenti e memoriali si limita invece alla semplice incisione nella pietra, nel marmo, nel vetro, dei nomi di coloro di cui si vuole tener viva la memoria. Una tradizione antichissima che dal Medioevo giunge ai nostri giorni attraverso i libri del ricordo, gli archivi, i diari, le cronache, i centri di documentazione.

Jan Dibbets, ad esempio, è invitato a creare un «monumento» in memoria di François Arago, eminente fisico e astronomo, direttore dell’osservatorio di Parigi, incaricato del prolungamento fino alle Baleari del meridiano di Parigi, quello che attraversa la Francia da nord a sud e che, dal 1799 al 1884, fino cioè alla sostituzione con quello di Greenwich, è il meridiano originario.

Nel 1893, a quarant’anni dalla morte, Parigi gli dedica una statua in bronzo: poggia su un alto basamento, a place de l’Île de Sein, dove il meridiano di Parigi taglia boulevard Arago. Nella Parigi occupata dai nazisti, la statua è rimossa per fonderne il piombo. Che fare del piedistallo orbo di statua? Dopo cinquant’anni,  Dibbets concepisce un «monumento immaginario realizzato sulle tracce di una linea immaginaria, il meridiano di Parigi». Centotrentacinque medaglioni in bronzo del diametro di 12 cm recano il nome di Arago stretto tra le due lettere che indicano il nord e il sud: tratteggiano un percorso che, dal piedistallo del monumento originario, si estende a nord e a sud attraverso sei arrondissements, incontrando, tra gli altri, il giardino Luxembourg, il Louvre, Palais Royal, Montmartre, Pigalle, l’osservatorio e la città universitaria. Così, il «contro-monumento» di Dibbets consente di ricordare un personaggio mitico nell’atto quotidiano del camminare; il suo nome, cioè la sua memoria, è parte integrante della città, della sua toponomastica.

Analoghi, per la discrezione materiale e la forza dell’impatto  concettuale ed emotivo, sono gli Stolpersteine (pietre d’inciampo) dell’artista tedesco Günter Demnig. Sampietrini del tipo comune e di dimensione standard (cm 10×10) sulla cui superficie superiore in ottone sono incisi: nome e cognome del/la deportato/a, anno di nascita, data e luogo di deportazione e, se nota, data di morte. La pietra o le pietre sono collocate sul marciapiede di fronte alla casa in cui abitava la persona evocata. L’inciampo non è fisico ma visivo e mentale, costringe chi passa a ricordare cosa è accaduto in quel luogo e a quella data, a intrecciare continuamente il passato al presente.

L’idea risale al 1993 quando l’artista è invitato a Colonia per un’installazione sulla deportazione di cittadini rom e sinti. All’obiezione di un’anziana signora secondo la quale a Colonia non avrebbero mai abitato rom, l’artista decide di dedicare tutto il suo lavoro successivo alla ricerca e alla testimonianza dell’esistenza di cittadini scomparsi a seguito delle persecuzioni naziste: ebrei, politici, rom, omosessuali, militari. I primi risalgono al 1995, a Colonia; da allora ne sono stati installati più di 22.000 in Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi e Belgio. Dal 28 gennaio 2010 anche Roma partecipa a questa grande mappa europea della memoria con l’installazione dei primi 30 sampietrini in memoria di deportati razziali, politici e militari.

Altri due casi, in conclusione. Il Monumento contro il razzismo, dell’artista tedesco Jochen Gerz, è  realizzato nel 1993 a Sarrebruck, in prossimità della frontiera francese. 2164 degli 8000 sampietrini che tappezzano la piazza dove risiedeva il quartier generale della Gestapo, sono divelti, incisi alla base con altrettanti nomi di ex cimiteri ebraici tedeschi, quindi nuovamente interrati e dunque invisibili. Un’invisibilità al quadrato, se l’oggetto del monumento è l’assenza dei cimiteri, memoria a loro volta di una perdita. Unica traccia visibile, la rinominazione della piazza, da «piazza del Castello» a «piazza del monumento invisibile».

La proposta infine, respinta in fase di concorso, dell’artista tedesco Rudolf Herz per il memoriale di Berlino. Convinto che la memoria debba essere parte integrante della vita quotidiana, trasforma un chilometro di autostrada nel centro della Germania, a sud di Kassel: il manto stradale viene sostituito in entrambe le direzioni con sanpietrini; all’inizio del chilometro, sia a nord che a sud, un segnale autostradale occupa l’intera carreggiata con la scritta: Denkmal für die ermordeten Juden Europas (Memoriale per gli ebrei europei uccisi). In quel chilometro, ancora, il limite di velocità si riduce drasticamente a 30 km l’ora, mentre nelle zone di sosta limitrofe, un’ampia documentazione illustra il progetto e le sue motivazioni. Rallentare il ritmo frenetico della giornata per riflettere è il prezzo da pagare alla memoria viva della Shoah, contro l’alibi del monumento.

 

 

Per le immagini si rinvia al sito www.arteinmemoria.com

 

[1] J. Kounellis, Un uomo antico, un artista moderno, pubblicato come Un hombre antiguo, un artista moderno, in «Vardar», (1982), 2, pp. 1-2.

[2] Y. H. Yerushalmi, Zakhor, Parma, Pratiche Editrice, 1983, p. 30.

[3] G. Wajcman, L’objet du siècle, Lagrasse, Editions Verdier, 1998, p. 13.

 

[4] T. Todorov, Gli abusi della memoria, Napoli e Los Angeles, Ipermedium, 1996, pp. 67-68.

 

[5] C. Vercelli, Dieci tesi sull’uso pubblico della Shoah, in «Ha Keillah», (2000), 5, p. 18.

[6] Ibid., p. 19.

[7] A. Wieviorka, L’era del testimone, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1999, p. 143.

[8] P. Cabrita Reis, dichiarazione rilasciata in occasione di «Arteinmemoria 2», in Arteinmemoria 2, cat. mostra a cura di A. Zevi, Sinagoga di Ostia antica, 27 gennaio – 15 marzo 2005, Roma, Incontri Internazionali d’Arte, 2006, pp. 23-24.

[9] Id., in M. Tarantino (ed), Pedro Cabrita Reis, Ostfildern (Germany), Hatje Cantz, 2003, p. 166.

[10] Ibid., p. 98.

[11] Ibid., p. 62.

[12] J. Dibbets, dichiarazione rilasciata in occasione di «Arteinmemoria 4», in Arteinmemoria 4, cat. mostra a cura di A. Zevi, sinagoga di Ostia antica, 28 gennaio – 25 marzo 2007, Roma, Incontri Internazionali d’Arte, 2007, p. 40.

[13] G. Anselmo, dichiarazione rilasciata in occasione di «Arteinmemoria 4», in Arteinmemoria 4 cit., p. 53.

[14] Id., in Giovanni Anselmo, cat. mostra a cura di B. Merz e W. Guadagnini, Galleria Civica, Modena, maggio-luglio 1989, Torino, hopefulmonster, 1989, p. 26.

[15] M. Bartolini, dichiarazione rilasciata in occasione di «Arteinmemoria 4», in Arteinmemoria 4 cit., p. 48.

[16] A. Dreyblatt, in Hypertext and Memory in Performance and Installation, in «Communication Review», (1997), 1, s. p.

[17] F. Mauri, dichiarazione rilasciata in occasione di «Arteinmemoria 1», in Arteinmemoria cit., p. 72.

[18] Id., «The Jewish and Myself», conferenza tenuta all’Istituto di Cultura Italiano, Londra 1995, p. 4.

[19] S. Trigano, «Un non-monumento per Auschwitz», in Pardès, Pensare Auschwitz, Paris, Éditions du Cerf, 1996, p. 15.

[20] D. Calimani, La memoria e il suo esilio, in AA.VV., L’ombra lunga dell’esilio, Firenze, Giuntina, 2002, p. 32.

[21] Ibid., p. 34.

[22] Ibid., p. 38.

[23] T. Todorov, Gli abusi cit., pp. 45-46.

[24] P. Eisenman, intervista con Sebastiano Brandolini, in «Il Venerdì di Repubblica», 22 gennaio 2005, p. 54.