in Remo Salvadori Continuo Infinito Presente, Incontri a Montellori, Fucecchio, 2007
“Architettura d’incontro” è espressione enigmatica: architettura come luogo d’incontro o come costruzione di occasioni d’incontro? Differenza non indifferente. Il primo approccio, decisamente architettonico, presuppone l’ideazione di spazi atti a ospitare funzioni relative al vivere e all’abitare, dunque anche all’incontro. La qualità dei primi condiziona la vita che in essi scorre. Il secondo, più pertinente alla riflessione artistica, prescinde dalla creazione di spazi e da ogni preoccupazione funzionale per concentrarsi sulla costruzione di opere autonome, al più in dialettica con lo spazio. La posizione di Remo Salvadori è ibrida: condivide l’ indifferenza a ideare nuovi spazi ma, assunto come centrale il tema dell’incontro e della relazione, adotta spesso forme e funzioni dell’architettura e del design. “Architettura d’incontro” è infatti il tavolo costruito nel 2003 in occasione del Cantiere che per cinque mesi riunisce negli spazi del cinquecentesco Palazzo Chigi a S. Quirico d’Orcia lo stesso Salvadori, dieci tutori e ventuno studenti. Intorno a quell’architettura, realizzata dagli stessi fruitori, si svolgono lezioni, seminari, si legge, disegna, ascolta, come nel bel disegno di Anna Sutor. “Un luogo d’incontro per individui che già operano e per altri che verranno; un tempo e uno spazio di possibilità che visualizzi un’architettura d’incontro; un ambito di ascolto e di parola”. Non solo. Il tavolo nasce a sua volta dall’unione tra cinque diverse essenze: cipresso, frassino, ciliegio, quercia e olmo, ognuna delle quali rimanda ai giorni della settimana dunque al tempo, ai materiali, ai colori, ai pianeti, alle energie primarie. E’ rotondo, morbido, avvolgente, antigerarchico: senza inizio né fine, senza capo né coda, vuoto al centro, un disco più che un tavolo. Lo sostengono cinque fogli di rame la cui energia è contenuta da un filo dello stesso materiale: la misura è l’abbraccio di alcuni ospiti del tavolo. Flessibile, malleabile, luminoso, legato a Venere, ma anche all’aria e alla betulla, il rame introduce una ulteriore relazione. Quando lo spazio si appiattisce il volume è nei nomi è il titolo geniale dell’architettura d’incontro: lo spazio esiste solo nel momento in cui serve all’incontro; sono i nomi, cioè le persone, a dargli spessore, volume, dunque realtà. Il resto è indifferente. Concluso Cantiere, Quando lo spazio si appiattisce il volume è nei nomi continua a nutrire incontri nella casa di Remo e Sally a Cerreto Guidi, a raccogliere amici che accorrono per godere di un’armonia fatta di parole, sguardi, convivialità ma soprattutto di un senso del tempo che non è “tempo libero” dal lavoro, sottratto a esso, ma un tempo nel quale la vita, non più segmentata, ritrova la sua integrità. «Concepisci un’opera quando è successo qualcosa nel senso esistenziale che ti permette di vederla, altrimenti non la vedi». Cantiere, del resto, si compone di tre momenti: il «vissuto», «gli incontri», «le opere».
Quando lo spazio si appiattisce il volume è nei nomi non è il primo tavolo. E’ anticipato da un’opera aurorale del 1972, quando Salvadori, trasferitosi a Milano dalla terra d’origine toscana, prende lo studio in via Cori o. Nello spazio angusto della cucina, con un solo spigolo a disposizione, fà di necessità virtù e circuisce quell’angolo con un piano rotondo: per la prima e l’ultima volta, l’architettura è il supporto di un’opera nata da esigenze funzionali. Mutando riposa, altro tavolo, è infatti autonomo: pieghevole, multiuso, misura tre metri quando aperto. Nasce anch’esso da ragioni funzionali, per assumere poi una forma e « decantarsi in un’opera» che «è in rapporto alla casa, ma anche a una scala più generale, quella del sentimento dell’orientamento» .
La centralità assunta dal tavolo nel percorso di Salvadori vale il confronto con un artista di almeno una generazione precedente, a lui legato da stima e amicizia profonde. Nel 1972, lo stesso anno di Tavolo d’angolo, Mario Merz licenzia A real sum is a sum of people, lavoro fotografico realizzato nella mensa popolare di una fabbrica napoletana. Se, avverte il titolo, i numeri non sono entità astratte, ma legate alle persone, il lavoro mostra i tavoli della mensa riempirsi progressivamente di gente secondo la proliferazione Fibonacci. L’anno successivo, nella galleria di John Weber a New York, lo spazio è ingombro di tavoli quadrati la cui dimensione varia secondo la stessa progressione, da 1 a 88 persone. Frugali, di ferro ricoperti di vetro, legno o pietra, opulenti, colmi di frutta, trafitti dal neon, attraversati dalle fascine, i tavoli consentono a Merz di visualizzare l’idea di crescita che governa l’universo, espressa in matematica dalla progressione Fibonacci e traducibile graficamente nella spirale. I tavoli sono, a suo dire, “un punto interrogativo che contrappongo allo spazio” statico e simmetrico, in nome di quello organico, in espansione dall’interno verso l’esterno, dal tavolo alle pareti e non viceversa. Palese la differenza con Salvadori, la stessa che corre tra il cerchio e la spirale, tra l’armonia e l’opposizione, tra una generazione in trincea e una in perplesso ripiegamento. “Preferisco essere in armonia che in disaccordo. Non sento la necessità di costruire sulla negatività”, è il motto di Salvadori, condiviso da un manipolo di artisti che, al confine tra gli impegnati anni settanta e i controriformistici anni ottanta, riammettono nell’arte salde relazioni interpersonali in un rapporto con la realtà non conflittuale né ideologico. “Diversamente dalla generazione nata nella guerra, in noi nati dopo la guerra l’aspetto ideologico era meno forte…meno dogmatico, più aperto ai problemi interpersonali…Diciamo che la questione fondamentale era l’arte e i sistemi di rilevamento erano fondati sugli aspetti non ideologici.C’era piuttosto il superamento del concetto binario.Ricordo che guardavo molto attentamente a quello che si veniva facendo:però era come se guardi un treno in corsa”.[1] Il tavolo di Salvadori è solido, circolare, frutto di un’azione collettiva, finalizzato a incontri reali; quello di Merz è una possibilità: non vi siede nessuno ma potrebbe ospitare un numero di persone potenzialmente infinito. “Spesso penso al tavolo a spirale come a un modulo di architettura, cioé di fabbricare una città ideale in cui il centro sia legato alla periferia da un continuum e non da un fatto puramente casuale”, insiste. Ancora un’utopia.
Il tavolo di Salvadori non è solo “architettura d’incontro”.
Nel giustapporre un elemento portante e uno portato, la direttrice verticale e quella orizzontale, il tavolo è, come il dolmen, sinonimo di architettura in fase pre-spaziale, l’idea stessa di costruzione, quale si esplicita con evidenza in Verticale del 1996: un disco di ferro poggiato su un foglio di rame. Se il rotolo di rame si conferma nel tempo elemento portante privilegiato, ciò che esso offre è mutevole e variegato: un foglio di carta con due bicchieri “a clessidra”, la treccia indissolubile di Continuo Infinito Presente, ciocchi di legni diversi, un girotondo di Nel Momento, un cerchio di rame al cui centro siede un cilindro di vetro ricolmo d’acqua. Agli antipodi di Quando lo spazio si appiattisce il volume è nei nomi, intorno al quale ci si riunisce, tali oggetti occupano il centro del piano orizzontale.
Ma Continuo Infinito Presente intorno alla quercia di Fucecchio non potrebbe leggersi come “architettura d’incontro” capovolta, il cui piano orizzontale coincide con la terra mentre quello verticale si radica in essa per svettare verso il cielo? Intorno a esso ci siamo del resto riuniti per condividere l’enigma della sua costruzione.
“Ho sempre portato attenzione alla sua pianta, poiché essa è forma di relazione”, afferma Salvadori a proposito di via Pace. Ma la dichiarazione può estendersi a confermare l’indifferenza allo spazio come cavità e l’attenzione portata al suo disegno.
Tra il 1978 e l’anno successivo, infatti, Salvadori mette in relazione gli interventi in quattro gallerie: Paola Betti a Milano, Ferruccio Fata a Bologna , Lucio Amelio a Napoli, Lucrezia De Domizio a Pescara. “Esperienze frammentarie, piccoli fuochi, hanno determinato un percorso che si dichiara nel suo farsi. Un percorso dove l’osservatore si sposta osservandosi. I luoghi sono quattro gallerie. Nella prima si è reso visibile l’uso dei materiali ivi trovatisi. La seconda si rappresenta come un contenitore caldo di elementi organici. La terza ha offerto una sua rilettura spaziale”: un corpo centrale allungato collega due ambienti circolari posti all’estremità, mentre il corridoio corre esternamente a essi ma vi si aggancia, impugnandole. Coniuga così il cerchio rinascimentale e l’ellisse barocco, la stasi e il movimento.
Nella quarta stazione, spiega Salvadori, l’esperienza dell’intero percorso si raffredda in forma di ceramica. Ne nasce un oggetto: un modello. Un esempio originario, Gravità zero. Esperienza di tempo e di luogo non gravitazionale. Così, se lo spazio si appiattisce nella pianta, Gravità zero, in quanto sintesi di relazione, le restituisce volume.
[1] R.Salvadori, in “Conversazione tra Bruno Corà…cit.,p.166.