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BURRI Lo spazio di materia / tra Europa e USA (a cura di Bruno Corà) Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello 2016
La grandiosa mostra che dall’ottobre 2015 al gennaio 2016 si è dispiegata lungo la spirale wrightiana del Guggenheim Museum di New York, in occasione del centenario della nascita di Alberto Burri, chiude il cerchio della fortuna critica dell’artista negli Stati Uniti: se la prima monografia è del 1955, a firma dell’allora direttore James Johnson Sweeney, la mostra odierna ne consacra la statura di maestro internazionale e, addirittura, lo designa precursore delle principali tendenze artistiche che tra gli anni Sessanta e Settanta hanno animato la scena artistica statunitense, dal minimalismo alla process art alla Land Art. Movimenti e tendenze manifestatesi all’unisono, negli stessi anni, negli stessi luoghi, a opera spesso degli stessi protagonisti. Se nel 1958 la mostra itinerante «The New American Painting» riconosce l’Espressionismo Astratto prima in Europa che in patria, a New York Leo Castelli ne decreta già il superamento ospitando nello stesso anno le personali di Robert Rauschenberg e Jasper Johns. Mentre l’anno successivo, gli “scandalosi” quadri a strisce di Frank Stella esordiscono nella mostra «Sixteen Americans» al MoMA di New York. Lo stesso vale per il 1964, quando la “Post-Painterly Abstraction” patrocinata da Clement Greenberg, che asciuga la foga pittorica espressionista astratta in tranquille e allegre stesure cromatiche, fa la sua apparizione al Los Angeles County Museum e la Pop Art sbarca in forze alla Biennale di Venezia guadagnando il Primo Premio a Rauschenberg. Nello stesso anno, in una trasmissione radiofonica coordinata da Bruce Glaser, Stella proclama, in dialogo con Donald Judd: «Il mio legame è ovviamente con la pittura geometrica, ma i miei presupposti non hanno nulla a che vedere con quella europea. I pittori geometrici europei inseguono quella che chiamo pittura relazionale. La base della loro idea è l’equilibrio. Fai qualcosa in un angolo e lo equilibri con qualcosa in un altro angolo….Le mie cose sono simmetriche perché voglio liberarmi di ogni effetto compositivo»[1]. L’anno successivo, nel manifesto del minimalismo Specific Objects, Judd gli darà atto che, proprio perché seriali e anti-compositivi, i quadri a strisce anticipano gli “oggetti specifici” minimalisti[2]. Infine, nel 1966, se la “Systemic Painting” di Lawrence Alloway è al Guggenheim Museum, il minimalismo è consacrato nella mostra «Primary Structures» al Jewish Museum, mentre il suo antipodo, la process art, s’impone in «Eccentric Abstraction» alla Fischbach Gallery per la cura di Lucy Lippard. Nello stesso anno Burri è al MoMA con Lucio Fontana. Tanto l’Espressionismo astratto aveva rivendicato solide radici europee, divenendo un interlocutore prezioso per le varie declinazioni informali, tanto le poetiche successive ne prenderanno con protervia le distanze. Perché attribuirne allora a Burri la primogenitura?
Scrive Emily Braun, curatrice della retrospettiva al Guggenheim: «Le serie (di Burri) anticipano molte delle prerogative della nuova arte identificata da Donald Judd nel suo saggio del 1965 Specific Objects…L’importanza di Burri è stata sottovalutata in parte perché il suo lavoro non era facilmente categorizzabile; non sembrava appartenere né al Neo-Dada né al Minimalismo né al Post-Minimalismo. Ma, verosimilmente, è stato il primo a fare quadri con “cose mai usate precedentemente in arte”, come “prodotti industriali” aggressivi, e ad esplorare il “monocromo naturale”. Judd rivendica queste come caratteristiche che definiscono la nuova arte. Parla anche degli oggetti che non sono “né pittura né scultura” ma “sfidano entrambe”. Ebbene, i Gobbi di Burri del 1950 occupano esattamente questo spazio liminale. Nel saggio Judd nomina Rauschenberg come precursore e dà riconoscimento a Yves Klein, Salvatore Scarpitta e Richard Smith. Nonostante Burri abbia influenzato direttamente tutti gli artisti suddetti, il suo nome non appare nel novero»[3].
Braun ha perfettamente ragione nel riconoscere a Burri una serie importante di primati. Composizione e Nero 1 sono del 1948, coeve dunque alla prima apparizione a Venezia delle opere espressioniste astratte della collezione Guggenheim. Nella prima, rigorosamente divisa in quattro settori diversi per dimensione e colore, s’impaginano, liberamente ma non casualmente, forme ovoidali. Nel secondo, il fondo è nero ma variamente modulato: ora lucido ora opaco, ora piatto ora reso scabroso da grumi di bitume. Su di esso si distribuiscono, con altrettanta libertà, forme quadrate e tondeggianti nere e, in posizione eccentrica, un rettangolo azzurro. Non è un collage ma, osserva Brandi: «mima un collage»[4]. Le due prove annunciano: la messa in crisi della dicotomia fondo-figura, dunque dell’illusionismo pittorico, l’immissione di materiali eterodossi, la predilezione per relazioni cromatiche atonali, a forte e drammatico contrasto. Se consideriamo che in SZ1 del 1949 compaiono i primi brandelli di tela di sacco con tanto di scritte e timbri originali, che in Catrami materia e colore si contendono il primato della superficie, che nel 1950 fanno la loro prima apparizione Muffe e Gobbi, ha ragione Rubiu: «tra il 1948 e il 1950 Burri è già “quasi”Burri […], il 1950 è un anno “pieno”: Gobbo, Sacco e Nero sono tre punti fermi»[5]. Se la monocromia di Catrami varia in spessore e luminosità, Gobbo, che incunea legno o ferro fra il telaio e la tela, è in assoluto la prima «tela sagomata», in largo anticipo su quelle italiane di Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, Salvatore Scarpitta, ma anche su quelle statunitensi di Frank Stella e Donald Judd. Se l’artificio prospettico sfonda illusionisticamente la tela, gli oggetti inseriti dietro di essa la avanzano verso lo spettatore.
A cosa attribuire allora l’omissione di Judd? Dimenticanza? Sciovinismo?
Burri non può essere certamente sfuggito allo sguardo attento e penetrante di Judd. Dal 1953, espone infatti con regolarità negli Stati Uniti. Insieme a Giuseppe Capogrossi, è l’unico artista italiano nella rassegna itinerante «Younger European Painters: A Selection», inaugurata al Guggenheim. Nello stesso anno, tra le opere esposte nella mostra «Alberto Burri: paintings and collages» alla Frumkin Gallery di Chicago c’è Gobbo, mentre Grande Sacco e Grande Bianco presiedono la prima mostra alla Stable Gallery di New York pilotata da Eleanor Ward. Anno cruciale il 1955: la prima monografia, la prima personale in un museo americano, l’Oakland Art Museum, la collettiva «The New Decade: 22 European Painters and Sculptors» al MoMA, la seconda personale alla Stable Gallery.
Ma lo scambio è biunivoco; grazie alla spola tra i due continenti di Piero Dorazio, Afro Basaldella e Toti Scialoja, l’accoglienza riservata in Italia agli artisti americani è parimenti calorosa: Willem De Kooning, Arshile Gorky, Franz Kline, Conrad Marca-Relli, Robert Sebastián Matta, Rauschenberg, Mark Rothko, Cy Twombly, sono ospiti a Roma delle gallerie L’Obelisco, Age d’Or, del Secolo e, dal 1957, La Tartaruga di Plinio De Martiis. L’apertura poi, nel 1957, della Roma-New York Art Foundation – dove espongono Carla Accardi, Burri, Capogrossi, Ettore Colla, De Kooning, Kline, Fontana, Mark Tobey, Jackson Pollock e Marca-Relli – sancisce l’asse privilegiato Roma-New York. Creata e diretta dalla pittrice americana Frances Mc Cann, la fondazione, che ha sede sull’Isola Tiberina, annovera nel comitato direttivo Lionello Venturi, James Sweeney, Michel Tapié e Herbert Read.
Un dialogo fecondo destinato a esaurirsi nel giro di pochi anni, coincidenti proprio con l’affermarsi dei movimenti cui fa riferimento Braun. Per ragioni complesse, di mercato prevalentemente, ma anche poetiche. Spiega infatti Maurizio Calvesi: «Se tra la disperazione del “ricco” Pollock e la fierezza del “povero” Burri si possono istituire molteplici relazioni di affinità e confronto, tra cui la concezione stessa dell’arte, eroica, come rifugio ed esaltazione dei valori, nessun ponte a livello che non sia linguistico può riallacciare all’asprezza di Burri la decadente immaginazione di Rauschenberg…Il lungo dialogo, ricco di sottintesi tra Burri e l’America è stato così in qualche modo interrotto, a partire dagli anni Sessanta: ed anche ideologicamente la dispersione del colloquio era inevitabile»[6]. Il volto dell’«America colonialista, dura e senza maschera»[7] si manifesta ben prima del famoso sbarco della Pop Art alla Biennale di Venezia del 1964, su cui Fabio Mauri ha scritto pagine disperate e memorabili[8]. Così Allen S. Weller nella recensione della mostra alla Frumkin Gallery nel 1955: «Sono certo che la sua (di Burri) pittura è assolutamente originale, che, pur consapevole della non-oggettività americana, si sia sviluppato indipendentemente […]. Rimane il fatto curioso che i suoi primi esperimenti pittorici hanno luogo in Texas. Viene da chiedersi se qualcosa fosse nell’aria!»[9]. Anche Dore Ashton, nel commentare sul «New York Time Magazine» la mostra al MoMA, la pone a confronto con la coeva «The New Decade: 35 American Painters and Sculptors» al Whitney Museum of American Art di New York. «Dei due gruppi, gli europei sono più strettamente legati all’arte del loro passato prossimo mentre gli americani, senza i vantaggi o gli svantaggi dell’impegnativa consuetudine moderna, sono inclini ad assumersi un maggior numero di rischi con l’uso di nuove tecniche e di metodi interpretativi più moderni. Entrambi, però, sostengono che la loro arte trova il proprio fondamento nell’esperienza delle cose così come esse vengono viste e percepite»[10].
Nel 1956,Toti Scialoja espone per la prima volta alla galleria di Catherine Viviano a New York, aperta nel 1950. E’ entusiasta dell’effervescenza della scena artistica e dell’accoglienza ricevuta. Lo accompagna Gabriella Drudi che così ricorderà tristemente nel 1993:«Poi tutto questo divenne accentramento, esclusione di qualsiasi realtà europea…Le solite assurdità, una specie di stupida logica che non esiste perché la storia dell’arte dimostra che se si crea un clima, se ne risente sempre internazionalmente. Allora in Italia non esisteva nessun rapporto con gli Espressionisti astratti. Gli artisti americani in realtà si erano visti poco: nel 1948 perché fu esposta la collezione Guggenheim a Venezia…»[11].Racconta come la realtà fosse tutta diversa dalle aspettative: gli Espressionisti astratti erano un piccolo gruppo, abbastanza isolato, poco considerato dai collezionisti «poi, quando cominciò ad affiorare un qualche interesse dall’Europa, il loro mercante, che era allora Janis, non ne voleva sapere. E anche dopo l’esplosione vera e propria del fenomeno, subito dopo, si è imposta l’operazione di Castelli sulla Pop Art…Mentre Matisse è un artista internazionale, e Rothko è un artista internazionale, Lichtenstein è un artista americano, non c’è niente da fare»[12]. Osservazione acuta e puntuale.
Ma non è per sciovinismo che Judd non nomina Burri.
Cita infatti tanti artisti, americani ed europei e, unico tra gli italiani, Enrico Castellani: «Alcune pitture europee si relazionano agli oggetti, quelle di Klein, ad esempio, e quelle di Castellani, che presentano campi indifferenziati di elementi a basso-rilievo»[13]. Delle “pitture” di Castellani Judd apprezza dunque due aspetti: il carattere unitario, indifferenziato, quindi anti-compositivo e anti-relazionale delle Superfici e, in secondo luogo, la conformazione delle stesse a “bassorilievo”, la tridimensionalità reale raggiunta attraverso l’alternanza di rilievi e avvallamenti stabiliti da semplici progressioni aritmetiche, “in semplice ordine, uno dopo l’altro”, secondo gli stessi principi aritmetici e leggi proporzionali che regolano la disposizione degli “oggetti specifici” nello spazio.
Judd, come Burri, ma ben più di Burri, è intento al superamento dell’illusionismo pittorico. Un problema che assilla del resto dal 1940 un pittore europeo naturalizzato americano come Hans Hofmann, maestro degli Espressionisti astratti e teorico dell’animazione della superficie per spinta e trazione (“push and pull”), e un critico della statura di Clement Greenberg. In una cavalcata critica attraverso testi ormai canonici quali Towards a Newer Laocoon del 1940, The Decline of Cubism del 1948 e “American-Type” Painting del 1955, Greenberg certifica il passaggio dello scettro “dell’arte per l’arte” dall’Europa all’America, dal cubismo all’espressionismo astratto. Se nella pittura d’avanguardia la superficie pittorica rifiuta di «farsi ‘bucare’ in nome dello spazio prospettico mimetico»[14], «con l’emergere di Arshile Gorky, Jackson Pollock, David Smith e con la tenuta di John Marin, si deve dedurre con nostra grande sorpresa che le premesse dell’arte occidentale sono emigrate negli Stati Uniti, insieme al centro di gravità della produzione industriale e del potere politico»[15]. Così Greenberg nel 1948, quando Peggy Guggenheim espone quei protagonisti a Venezia e Burri, con Composizione e Nero 1, propone soluzioni originali agli stessi problemi.
Incalza Judd nel testo del 1965: «Con l’eccezione di un campo di colore unico e uniforme, qualsiasi cosa situata su un rettangolo o su un piano suggerisce qualcosa in e sopra qualcos’altro, qualcosa nel suo intorno che suggerisce un oggetto o una figura nel suo spazio»[16]. Monocromia a parte, l’unica soluzione possibile è l’abbandono della pittura e della bidimensionalità per gli oggetti tridimensionali. Nel 1955, quando Burri espone a New York le sue soluzioni rivoluzionarie, Judd dipinge ancora quadri astratti dove forme libere, né geometriche né organiche, vagano sulla superficie per ridursi, tra il 1960 e l’anno successivo, a percorsi sinuosi che tendono a vincere i limiti della superficie. Nel 1962 aggiunge sabbia e cera per ispessire la superficie e accorpa i tracciati al centro della tela. L’inserimento di oggetti sulla superficie corrugata prelude nel 1963 alle tele sagomate ottenute incurvando la base e la sommità del quadro. Nello stesso anno Burri, la cui retrospettiva tocca i principali musei statunitensi – da Houston a Buffalo, da Minneapolis a San Francisco e Pasadena- è già oltre i Gobbi , alle prese con Combustioni, Plastiche, Legni e Ferri, anche se, nella mostra itinerante del 1961 «Art of the Assemblage», aveva esposto ancora Sacco SP, Rosso e Tutto Nero, del 1953 e 1956. Diversamente da Castellani, per il quale diviene metodo, condizione stessa dell’opera, diversamente da Judd e dai minimalisti, preludio alla conquista dello spazio, l’estroflessione della superficie è per Burri una indagine supplementare sulle sue potenzialità, forse il contraltare alle ulcerazioni dei sacchi. Non è certamente l’anticamera della sua messa in discussione né un’opzione definitiva, senza ritorno. Di qui, forse, l’omissione di Judd. Non solo.
In Burri è assente ogni idea di serialità, almeno come la intende Judd e più in generale i minimalisti di stretta osservanza: a parità di materiali, forme e colori, ogni opera è un pezzo unico, irriducibile agli altri. Se il minimalismo rivendica, contro la composizione europea, la serialità e la ripetizione modulare, con l’occhio rivolto alla griglia urbana iterabile all’infinito, Burri è e resta un grande maestro della composizione europea. Anche quando, con i Legni e i Ferri «la materia inizialmente espressiva tende a diventare asemantica, anicologica»[17]. Per questo le parole di Giulio Carlo Argan restano tutt’oggi insuperate: «L’oggetto che Burri compone con quelle strane materie non è figurazione né rappresentazione, ma non è neppure l’oggetto plastico del Cubismo o l’oggetto a funzionamento simbolico del Surrealismo; è un quadro o, se si vuole, la finzione di un quadro, una sorta di trompe-l’œil a rovescio, nel quale non è la pittura a fingere la realtà, ma la realtà a fingere la pittura»[18].
Concorda Braun quando scrive: «Burri rompe con il passato ma non lo rinnega. I lavori delle sue diverse serie restano “quadri” in forma autoreferenziale – nel formato, nei riferimenti storici e nella bellezza sensuale»[19]. La materia cioè non dissacra la pittura come quest’ultima non nobilita la materia; l’esito è drammatico perché il confronto è autentico. Per riprendere Argan: «Allora è chiaro perché mai la geometria e la materia dei quadri di Burri non si risolvano l’una nell’altra e rimangano sempre distinte e separate, negando a chi guarda sia l’orrore di vedere la geometria sopraffatta e travolta dalla materia, sia il sollievo di veder la materia inquadrarsi, rarefarsi nella struttura geometrica: la presenza della materia contraddice e distrugge lo spazio, così come la presenza della geometria contraddice e distrugge il tempo»[20].
Altre affinità possibili con le poetiche statunitensi? Rivolgiamoci nuovamente a Braun. «LeWitt trascorreva regolarmente l’estate a Spoleto; sia lui sia Burri avevano come comune amico l’architetto Alberto Zanmatti. Alcuni Cellotex, in particolare del ciclo Monotex (1986), emulano le permutazioni seriali dei wall drawings di LeWitt. A sua volta LeWitt ha realizzato negli anni Novanta una serie di rilievi murali in styrofoam: eccezionalmente tattili, questi pezzi irregolari e frammentari erano pensati in base alla forma e alla posizione. Creano delle crepe profonde sulla superficie simili a quelle di un Cretto di Burri»[21]. Ribadiamo intanto che nella poetica di Burri è totalmente assente l’ossessione combinatoria che regola le serie di LeWitt, l’esaurimento di tutte le possibili combinazioni di un tema dato, dalle linee agli archi alle figure geometriche. LeWitt frequenta l’Italia già da studente negli anni Cinquanta; nel 1969 vi torna per la prima mostra a L’Attico di Fabio Sargentini e, da allora, espone con regolarità in musei e gallerie prestigiose, da Sperone a Toselli a Bonomo a Pieroni. Soggiorna a Spoleto almeno sei mesi l’anno e ha l’opportunità di conoscere Burri, recandosi più volte a Città di Castello. E’ nota, e da lui più volte rivendicata, l’influenza della pittura rinascimentale sulla concezione dei wall drawings; gli affreschi di Giotto ad Assisi, di Signorelli nel Duomo di Orvieto e di Piero della Francesca ad Arezzo sono d’altronde facilmente raggiungibili da Spoleto. Se le prime prove, nel 1958, sono Studies after Piero, tratti dal ciclo della Leggenda della Croce, dieci anni dopo la visita alla mostra «The Great Age of Fresco: Giotto to Pontormo» al Metropolitan di New York, uno spettacolare dispiegamento di affreschi tra il XIII e il XV secolo, staccati per salvarli dai danni dell’inondazione di Firenze del 1966, è decisiva per affrontare la parete della galleria di Paula Cooper a New York. Nel 2006, già molto malato, LeWitt rilascia la sua ultima intervista, voluta, seppur tra grandi difficoltà, per riconoscere con generosità l’importanza che l’arte italiana ha avuto sul suo lavoro, quella antica ma soprattutto la contemporanea, soprattutto l’arte povera, di cui ha avuto modo di conoscere e frequentare i protagonisti sin dal 1969. Avvezzo alla situazione newyorchese, «basata sull’ideologia e l’impegno teorico», «quando arrivai da Sargentini fui colpito dall’ampiezza del pensiero di una mostra come quella di Kounellis con i cavalli: gli artisti italiani non erano ideologici ma piuttosto sensuali, avevano a che fare… molto più con i sensi che con la mente e questo per me era davvero importante. Non c’entrava col soggetto o lo stile o con un certo tipo di arte ma c’era una specie di energia liberatoria che mi colpì»[22].
Se le preferenze vanno ai coetanei Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Alighiero Boetti e Mario Merz, Burri è pressoché taciuto. In effetti, nonostante LeWitt abbia ammirato più volte il Grande Cretto di Capodimonte, ci sembra che l’assonanza con i wall drawings in styrofoam sia solo formale e linguistica. Quel ciclo di lavori nasce in realtà su commissione dell’Associazione Lighthouse for the Blind and Visually Impaired di New York: la tattilità e frammentarietà sono dettate dalla loro destinazione ai non-vedenti. Se una associazione con LeWitt è possibile, concerne piuttosto la ripresa della pittura da parte del maestro umbro nei cicli degli anni Ottanta, Il viaggio, Orti e Sestante, e lo scompiglio che genera in campo critico. Basti il giudizio impietoso di Leonardo Sinisgalli: «Oggi possiamo parlare di Burri in termini freddi, quasi scientifici […]. C’è una calma mentale al posto dell’isteria. C’è disciplina […]. Si spersonalizza, rinuncia all’azzardo, alle secrezioni […]. Ma l’esattezza è inflessibile e taccagna, non è allegra, è musona […]. Tuttavia sembra ch’egli abbia ritrovato il conforto di certi dogmi che gli sembravano ridicoli fino a ieri, per esempio la simmetria. Ed è importante che si sia deciso a prendere in mano la matita, i pennelli, le pennellesse, le spatole e i colori al posto della fiamma ossidrica, degli stracci, delle plastiche. Resisterà al rigore, all’abnegazione richiesta da questo esercizio paziente? Si contenterà di queste piccole estasi artigianali?»[23]. Analogo a quello provocato dal “concettuale” LeWitt quando abbandona il bianco e nero e sfida l’involucro architettonico con forme e colori incontenibili.
C’è un’altra associazione possibile e stimolante, affacciata spesso dalla critica ma taciuta da Braun, tra i Cretti di Burri e la Land Art, soprattutto in riferimento a quello, concepito nel 1981 e realizzato quattro anni dopo su commissione del sindaco Ludovico Corrao nella vecchia Gibellina distrutta dal terremoto che ha sconvolto nel 1968 la Valle del Belice. Presentati per la prima volta nel 1973 a Bologna, i Cretti sono di poco posteriori all’affermarsi della poetica americana: la mostra inaugurale «Earth Works» alla Dwan Gallery di New York è infatti del 1968 mentre «Earth Art»alla Cornell University è di un anno successiva. Non si può capire la Land Art se si prescinde dal contesto storico e sociale che la supporta, dalla profonda consapevolezza critica e oppositiva dei suoi protagonisti, in primis Robert Smithson, la mente del gruppo. E’ proprio il suo testo canonico del 1966 (di nuovo il 1966!) Entropy and the New Monuments[24] a spiegare scelte che sono allo stesso tempo estetiche e profondamente etiche. La galleria, intanto, non è più il solo luogo deputato all’arte ma la testimone di interventi titanici e inaccessibili che si svolgono altrove, nello sconfinato territorio americano. I siti scelti per gli interventi, poi, frutto di perlustrazioni così avventurose e rischiose da essere costate a Smithson la vita, sono entropici, aree urbane degradate, cave abbandonate, paesaggi devastati, fiumi e laghi inquinati, negletti dallo sfruttamento capitalistico e rivendicati dall’arte. Come il Great Salt Lake in Utah, dove ambienta nel 1970 la gigantesca Spiral Jetty.
Cosa condividono i Cretti di Burri con questa Weltanschauung? All’apparenza “naturali”, esito di un processo naturale della materia, sono in realtà frutto di un controllo preciso da parte dell’artista. «Si tratta di un procedimento artistico ma lavorando così Burri aveva scoperto la possibilità di accettare la natura come collaboratrice. La materia del cretto, violentata in un craquelè minuto, fa pensare che si tratti di un’opera artigiana, un terreno che ha tremato o della superficie di fango crettato»[25]. Il materiale, un impasto di bianco di zinco e colle viniliche, genera, nel rapprendersi, una ragnatela di crepe più o meno sottili, più o meno omogenee. Quando il processo raggiunge il risultato desiderato, il vinavil steso sulla superficie ne arresta l’erosione. Rispetto ai lavori precedenti, dove pure è presente la craquelure, come Muffe e Bianco del 1952, i Cretti possono assumere una dimensione ambientale, come Grande Cretto Nero del 1977 per l’Università della California, che misura 5 metri x 15, e Grande Cretto Nero Capodimonte, composto di settecento pezzi di ceramica. Convocato nel 1981 dal mecenate Corrao, Burri concepisce la sua unica opera a scala territoriale. Cosa fare con le macerie del vecchio insediamento? Il quesito non è nuovo e si pone drammaticamente ogni qual volta guerre, bombardamenti o disastri naturali affliggono città, paesi e nazioni. Due esempi diametralmente opposti: Oradour-sur-Glane, in Francia, è il caso più emblematico ed estremo di conservazione delle rovine nella loro condizione originaria, come se il tempo si fosse fermato a quel 10 giugno 1944 quando i tedeschi compirono una delle rappresaglie più efferate massacrando 600 uomini, donne e bambini, e radendo al suolo il villaggio. Il Presidente De Gaulle decise che il villaggio non sarebbe stato mai più ricostruito e le rovine sarebbero state lasciate intatte: un grande memoriale alle sofferenze della guerra. Rovine che, paradossalmente, per rimanere tali, hanno bisogno di cure e restauri costanti. Agli antipodi, a Ground Zero a New York, dopo lunghe e accese discussioni sul destino delle macerie delle Twin Towers, è stato deciso di rimuoverle per lasciare il posto alla colossale e discutibile Freedom Tower di Daniel Libeskind. La soluzione di Burri è ancora diversa. Sceglie infatti di nascondere sotto una coltre bianca le rovine del vecchio insediamento evocandone però il tracciato e rendendolo percorribile attraverso le fessurazioni del Cretto. Come se dalle macerie si ergesse l’immagine spettrale dell’antica Gibellina. Erich Steingraber avvicina il Cretto agli interventi di Christo quando impacchetta i monumenti. «La differenza è che Christo ha fatto un’azione, uno spettacolo temporaneo mentre l’opera di Burri è una Land Art Sculpture percorribile, un massiccio monumento commemorativo di altissimo significato morale che custodisce i ruderi del vecchio paese come in una teca»[26].Proprio così:un lavoro a scala ambientale non è necessariamente un lavoro di Land Art. Burri non crea un’opera nel paesaggio ma « un “calco” del trauma tellurico» [27] dirigendo le crepe del Crettoin direzione della mappa del vecchio insediamento. L’opera è cioè a misura delle macerie che copre e coincide perfettamente con il luogo da evocare e ricordare. Per questo, ci sembra più lecito parlare del Cretto come di un gigantesco monumento alla memoria di un insediamento scomparso, un «monumento a una catastrofe»[28]. Come non pensare allo straordinario memoriale di Peter Eisenman a Berlino?A Gibellina 122 blocchi di cemento alti 1 metro e 60 si estendono su un’area di 300 metri x 400: una distesa pari a cinque volte quella del memoriale tedesco strutturato da 2711 stele alte 4 metri e mezzo. Anche se il progetto originario, condiviso con Richard Serra, ne prevedeva esattamente il doppio, per un’altezza doppia. Cosa accomuna i due monumenti? Due cose, sostanzialmente: l’essere concepiti entrambi come percorsi inquietanti e destabilizzanti e, in secondo luogo, il configurare entrambi un brano di città. Alla struttura astratta e indifferenziata della griglia di Berlino, non finita, potenzialmente replicabile all’infinito, fa da contrappunto l’evocazione del vecchio insediamento di Gibellina. In questa differenza risiede lo scarto tra Europa e Stati Uniti, fra il tracciato tortuoso di un piccolo insediamento medioevale e la scacchiera di una grande metropoli. Ancora, a Berlino non c’è nulla da vedere, nulla da capire, nulla da ricordare e il visitatore, solo con se stesso, privo di indicazioni, di direttrici privilegiate, di fulcri prospettici, vive un’esperienza che appare da fuori logica e ordinata ma che, nel compierla, si rivela instabile, dissestata e squilibrata, grazie al pavimento ondivago e all’inclinazione delle stele. A Gibellina accade l’esatto contrario: il percorso tra le macerie del Cretto evoca e fa rivivere il passato, indirizza la memoria e rassicura il visitatore, anche se il bianco accecante che stacca la scultura dal contesto raffredda e distanzia le emozioni.
Curioso…Abbiamo iniziato contestando facili associazioni e discutibili ascendenze, concludiamo affacciandone altre…parimenti opinabili. Perché, nonostante Giuliano Serafini ritenga che «l’assolutezza della innovazione (di Burri) all’interno del pensiero estetico contemporaneo…lo colloca in una zona franca, in un’area di intangibilità e di inimitabilità», è errato oltrechè rischioso, tanto per i grandi protagonisti quanto per i grandi eventi o le immani tragedie, essere posti «fuori gioco rispetto alla storia»[29].
[1] B. Glaser, Questions to Stella and Judd, intervista radiofonica su WBAI-FM, New York, febbraio 1964, pubblicata da L. R. Lippard in «Art News», settembre 1966. Ripubblicata in Battcock, Minimal Art A Critical Antology, E. P. Dutton, New York 1968.
[2] D. Judd, Specific Objects in «Arts Yearbook», 8, 1965, ripubblicato in D. Judd., Complete Writings, 1975-1986, Van Abbemuseum, Eindhoven 1987, p. 120.
[3] E. Braun, The Burri Effect, in Alberto Burri: The Trauma of Painting, cat. mostra, Solomon R. Guggenheim Museum, New York, ottobre 2015-gennaio 2016, Guggenheim Museum Publications, New York 2015, p. 73.
[4] C. Brandi, Burri, Editalia, Roma 1963, p. 20.
[5] V. Rubiu, Alberto Burri, Einaudi, Torino 1975, pp. 8-9.
[6] M. Calvesi, Italia e America, in Burri. Il viaggio. Sestante. Annottarsi, cat. mostra, ex-Stabilimento industriale “Peroni”, Roma, maggio-settembre 1987, Edizioni Petruzzi, Città di Castello 1987, s.p.
[8] F.Mauri, Che cosa è, se è, l’ideologia nell’arte, 1984, poi in C.Christov-Bakargiev e M.Cossu(a cura di),Fabio Mauri.Opere e azioni 1954-1994, cat.mostra, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma, giugno-ottobre 1994, Mondadori, Roma 1994, p.273.
[9] A. S. Weller, Burri, in «Art Digest», febbraio 1953, p. 10.
[10] D. Ashton, The Artist in Europe, in «The New York Times Magazine», 8 maggio 1955, pp. 28-29.
[11] G. Drudi, conversazione con A. Costantini, Roma, 13 febbraio 1993, in G. Celant (a cura di), Roma-New York: 1948-1964, cat. mostra, Murray and Isabella Rayburn Foundation, New York, novembre 1993-gennaio 1994, Edizioni Charta, Milano 1993, p. 121.
[13] D. Judd, Specific Objects, cit., p. 119.
[14] C. Greenberg, Towards a Newer Laocoon, in «Partisan Review», luglio-agosto 1940, ripubblicato in J. O’Brian (Ed. ) Clement Greenberg The Collected Essays and Criticism, vol. I, University of Chicago Press, Chicago, London 1986.
[15] C. Greenberg, The Decline of Cubism, in «Partisan Review», marzo 1948, ripubblicato in J. O’Brian (Ed.) Clement Greenberg, cit.,vol. II.
[16] D. Judd, Specific Objects, cit., p. 117.
[17] M. Calvesi, Italia e America, cit., s.p.
[18] G. C. Argan, Alberto Burri, in XXX Biennale Internazionale d’Arte, cat. mostra, Venezia, giugno-ottobre 1960, Stamperia di Venezia, Venezia 1960, p. 65.
[19] E. Braun, Aftermath, in Alberto Burri, cit., p.37.
[20] G. C. Argan, Alberto Burri, cit., p. 66.
[21] E. Braun, The Burri Effect, in Alberto Burri, cit., p. 80.
[22] A. Zevi, In dialogo con Sol LeWitt, in A. Zevi (a cura di), L’Italia nei wall drawings di Sol LeWitt, cat. mostra, MADRE, Napoli, dicembre 2012-aprile 2013, Electa, Milano 2012, p. 50.
[23] L. Sinisgalli, Il nuovo Burri, in «Corriere della Sera», 11 maggio 1969, p. 12.
[24] R.Smithson, Entropy and the New Monuments, in N.Holt (Ed.), The Writings of Robert Smithson, New York University Press, New York 1979, pg.9-18.
[25] E. Steingraber, Il Cretto di Gibellina: un’opera fra arte (Land Art) e natura (Geo Art), in Alberto Burri nel panorama della Land Art internazionale, G. De Simone, G. Farina, S. Fazzi (a cura di), atti del convegno, Gibellina, 9-10 ottobre 1998, Comune di Gibellina 1998, p. 80.
[27] G.Serafini, Il nome e la cosa(ovvero il simbolo è la Prova), in Alberto Burri nel panorama, cit., p.40.
[28] H. Friedel, Mikromégas, in Alberto Burri nel panorama, cit., p. 47.
[29] G.Serafini, Il nome e la cosa(ovvero il simbolo è la Prova), in Alberto Burri nel panorama, cit., p.38.