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La moda non è arte

in “Architettura all’arte”, in “Lotus”, n. 113, Milano

La moda non è arte

Così postulava la geniale stilista Cocò Chanel nel liberare la donna da abiti paludati e costrittivi. Ma i tempi sono profondamente cambiati: oggi la moda è arte, l’architettura è arte ed entrambe sono “di” moda. La stilista Miuccia Prada e l’architetto olandese Rem Koolhaas annunciano infatti che: “Il mondo è sempre più invaso dai negozi. Il panorama delle città è fatto ormai da esposizioni ininterrotte di merce… Per questo abbiamo deciso di studiare nuovi luoghi in cui si possano intrecciare consumo e cultura”. Sul fascicolo di gennaio 2001 del mensile “Domus”, poi, sotto il titolo “Junk Space”, l’ architetto rincara la dose e sostiene che nulla può ormai contrastare questo mostro che invade, controlla e decide la forma delle nostre città, vanificando ogni pianificazione. “L’intero campo architettonico viene negato: ciò che rimane è una colata programmatica, che invade l’intera città, in cui tutto è collegato a tutto. Lo shopping ha introdotto un paradigma dello spazio completamente nuovo. ’Junk Space’: così chiamo questa nuova esperienza di spazio. E’ ciò che resta dopo che la modernizzazione si è compiuta o, piuttosto, il contenitore in cui la modernizzazione si realizza”. Incoerente, contraddittorio, sregolato, aberrante, “lo Junk space è al di là dello schema, della geometria e della riconoscibilità. E’ persino al di là della memoria”. Per concludere: “L’apoteosi dello shopping è l’apoteosi della modernizzazione: un orgasmo di utilitarismo, uno sbocco folle della dottrina della forma che segue la funzione, la vendetta finale del funzionalismo”. Invita quindi i colleghi ad abbandonare ogni reticenza e a buttarsi nella mischia: “Anche se noi, per la maggior parte, pratichiamo una casta astensione, l’estetica dello shopping oggi è il metro delle aspettative degli architetti”. Altro che astensione! Koolhaas e Herzog & de Meuron si spartiscono infatti la progettazione degli spazi Prada nel mondo, da New York a S.Francisco, da Los Angeles a Tokyo. Esposti a Milano, nella nuova sede della omonima Fondazione, i progetti utilizzano materiali e forme moderne per applicarli però a una condizione effimera e rarefatta; la merce esposta è evanescente, senza peso, come in un video, da guardare più che da indossare. Ma non è questo il punto: che architetti di qualità si occupino della progettazione di negozi, non solo non è una novità, ma è assai auspicabile sia per gli architetti sia, soprattutto, per i negozi. Il problema sorge quando, nella babele di linguaggi e funzioni, l’arte sfila e la moda espone o, peggio, quando i luoghi deputati all’arte sono progettati secondo le regole dello shopping. “Il Guggenheim di Bilbao, e anche il Getty Museum, con tutta la loro pretesa affettazione, che cosa sono in definitiva se non dei mall?”, s’interroga Koolhaas in “Junk Space”. A parte il confronto improprio tra il capolavoro di Gehry e il complesso gelido e funereo di Richard Meier, Koolhaas coglie nel segno e plaude al cambio di rotta. Non si tratta di condannare moralisticamente l’ideologia consumistica ma di constatare con allarme che, se la città, l’architettura, i musei, sono concepiti come luoghi commerciali, lì non vi è più posto per l’arte. Si assiste così a un vistoso paradosso: i destinatari dei nuovi, spesso straordinari spazi museali – da Bilbao a New York, da Londra a Berlino- sono abiti, motociclette, bar, ristoranti, gadgets, mentre l’architettura, compiaciuta, si auto esibisce difronte a un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo e l’arte, per non essere da meno, si adegua spettacolarizzandosi e virtualizzandosi. Ne è prova l’insopportabile e defatigante sfilata di video che sostanzia l’ultima Biennale di Arti Visive a Venezia. Tra una farneticazione e l’altra, non predica del resto il neo sottosegretario ai Beni Culturali Vittorio Sgarbi di sostituire le visite degli studenti ai Musei con una bella navigazione in internet?
Se Mondrian auspicava la sintesi delle arti sotto l’egida dell’architettura, Stefano Casciani, su “Domus” di aprile 2001, ci rassicura: “Assumendo il nuovo volto di mecenate postindustriale che fa collaborare i nomi più famosi della nuova élite architettonica internazionale, Prada chiude il cerchio dell’integrazione delle arti: tanto predicata dalle avanguardie moderne e contemporanee quanto puntualmente disattesa dalla prassi professionale dell’establishment modernista. Pronti ad assalire chi è più bravo o semplicemente attento al cambiare dei tempi, baroni e baronetti dell’architettura italiana sono pronti a criticare come ’operazione di marketing’ ogni tentativo di interpretare progettualmente la nuova natura del capitale”. Lo strale è rivolto a Vittorio Gregotti che, su “La Repubblica” del 7 maggio 2001, pensando evidentemente a Koolhaas, si permette di dissentire: “Ergo è necessario non tanto che le boutique diventino musei quanto piuttosto che i musei diventino boutique. Cosa peraltro che sta avvenendo con la complicità di artisti e architetti e con la benedizione delle stesse istituzioni convinte così di divenire ’moderne’ (cioé alla moda) e nello stesso tempo di contribuire a incrementare la cultura in quanto ’bene economico”. Se la cultura è un bene economico e se l’economia è guidata dal modello USA, il sillogismo è elementare: il paradigma Guggenheim è vincente e farà tendenza. La casa madre vende il marchio ai suoi satelliti, decide la progettazione delle sedi, si arroga il diritto delle scelte culturali e dell’ordinamento delle collezioni. Uno scambio, come assicura il super direttore Thomas Krens a proposito del nuovo Guggenheim progettato a Las Vegas da Koolhaas per ospitare le collezioni congiunte del museo americano e dell’Ermitage di S. Pietroburgo, alla pari: “Ciò che l’Ermitage darà al Guggenheim è la sua enorme fama e le sue collezioni che abbracciano seimila anni di cultura dell’uomo. Ciò che il Guggenheim darà all’Ermitage sono cento anni di esperienza dell’arte del XX secolo e la capacità pratica di gestire progetti di costruzione e di cercare soluzioni architettoniche innovative”!

Vale chiedersi: chi ha inaugurato la moda del Museo-shopping mall? A quando risale il fenomeno? “L’interpretazione catastrofista di Jean Baudrillard ha messo in evidenza il nevrotico viluppo di contraddizioni che sorregge la concezione e l’uso di Beaubourg, visto come sistema pervasivo e autodistruttivo, totalitario e liquidatorio della tradizione borghese”, riferisce Alessandro Rocca nel testo I limiti del museo. Aprendo le porte a una pluralità di eventi e di attività extra artistiche indirizzate a un pubblico più ampio e meno selezionato, il Beaubourg, splendida macchina tecnologica progettata dal team Piano-Rogers, inaugura il modello di “museo-azienda”. Quanto all’ingresso della moda, la primogenitura spetta naturalmente all’Italia: nel 1985 Fendi sfila alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, nell’89 è la volta di Capucci che, nel ’95, tiene una personale alla Biennale di Venezia. Ma, a far le cose in grande, è nuovamente il Guggenheim di New York che, sotto la cura di Germano Celant, ospita nel 1994 The Italian Metamorphosis, 1943-1968, dove moda e design fiancheggiano pittura e scultura. Segue la Biennale della moda a Firenze, la personale di Giorgio Armani al Guggenheim di New York, fino alla mostra Made in Italy nell’ambito della Triennale di Milano del 2001, dove le Nature di Fontana e i Bachi da setola di Pascali franano, nell’allestimento apocalittico di Gae Aulenti, sulle caffettiere Alessi. In tale babele linguistica è evidente l’interesse dei musei a ospitare mostre spettacolari, accattivanti e soprattutto auto-finanziate, quello degli architetti che godono oggi di una libertà espressiva ed economica senza precedenti, quello delle case di moda che possono rifarsi una verginità culturale. Ma l’arte, che ci guadagna? Che ci guadagna Torqued Ellipse di Serra quando a Bilbao è sommerso da roboanti motociclette? E il Guggenheim di Frank Ll. Wright quando i velari innalzati da Bob Wilson per la mostra di Armani interrompono l’osmosi tra la rampa spiraliforme e il vuoto centrale? Gregotti assegna a ragione una parte di responsabilità alle arti visive “sempre più evento e sempre meno opere… L’artista per sopravvivere è dovuto divenire più importante dell’arte stessa, in una forma di progressiva teatralizzazione quale estremo tentativo di creare un ponte verso la comunicazione”. Come provano le ultime biennali di arte e di architettura a Venezia, che sono pressoché equivalenti, il comun denominatore tra le due discipline è “on line”.
Per l’artista Giulio Paolini, invece, la responsabilità è unilaterale. In “Cinquant’anni al Museo: una detenzione a vita”, pubblicato sul Giornale dell’Arte dedicato alla 49 Biennale d’Arte di Venezia, tuona contro “queste ‘bravate’ architettoniche, regolarmente associate con colpevole disinvoltura alla materia delicata e refrattaria delle opere d’arte… Non è soltanto una questione di ‘gusto’, è l’opera d’arte, essa stessa, a non chiedere una tale accoglienza, a non volersi mettere in vetrina: chiede soltanto di esistere, di poter resistere là dove è apparsa e si è manifestata. Se l’opera, in quanto tale, ha sempre ragione (o per lo meno le ‘sue’ ragioni), il museo no! Non può abdicare, rinunciare alla sua funzione primaria (quella cioè di favorire il sorgere innocente e spontaneo del gusto della scoperta) e sostituirla arringando il visitatore sull’obbligo dell’apprendimento, stimolando esplicitamente la sua curiosità, ovvero la peggiore nemica dell’osservazione e della conoscenza”. Pur non condividendo la giaculatoria di Paolini che invoca la neutralità architettonica e predica il ritorno elitario alla casa-museo, il suo dissenso, come del resto quello di Gregotti, è significativo e stimolante, in uno scenario dominato dal plauso e dall’indifferenza.

pro e contro l’architettura

Quando nel 1943 Frank Ll. Wright affronta l’incarico per il Museum of Non Objective Art di New York, parte da una convinzione: la buona architettura non ha bisogno di arredi né, tantomeno, di opere d’arte. Per questo, l’edificio è concepito per rendere difficile la vita ai suoi abitanti. Difficile ma non impossibile. Un percorso continuo a spirale circuisce l’invaso centrale coagulandolo verso la sommità trasparente. Lo spazio è continuo, totalmente visibile da ogni punto; la visione diacronica cede il passo a quella sincronica consentendo simultaneità poetiche, incroci e travasi generazionali. La rivoluzione è di tale portata che le polemiche si scatenano subito furibonde: come appendere una superficie piana su una parete curva e per di più in pendenza? Come calibrarne l’ortogonalità? Come garantire la visione frontale lungo una rampa stretta e inclinata? Dove, infine, collocare opere di scultura senza intralciare il cammino? Il Guggenheim diviene rapidamente il simbolo di ciò che un museo non deve essere, la violazione più totale di quello che Brian O’Doherty descrive con efficacia “white cube”: “uno spazio ghetto, per la sopravvivenza, un proto-museo a-temporale, un insieme di condizioni, un’attitudine, un luogo privo di identificazione, un riflesso della nuda parete divisoria, una camera magica, una concentrazione della mente, forse un errore”. Tant’è vero che, quando nell’88 se ne rende impellente l’ampliamento, Gwatney & Siegel concepiscono un prisma regolare che ricuce lo strappo del tessuto urbano; un contenitore neutro, un “white cube”, appunto, nel quale l’opera primeggia per assenza di interlocutore.
Se la maggior parte degli artisti preferisce esporre nella nuova ala, altri accettano la sfida e si cimentano, pur con sgomento, con lo spazio wrightiano. Alcuni esempi.
“Non esiste da un lato un problema di architettura e dall’altro un problema di arte a essa estranea. Non si tratta di un’arte che si sottometta all’architettura né di un’architettura che si sposi all’arte. Si tratta di un rapporto conflittuale, ove le due parti si mettono alla prova, in vista di una differenza”. Così l’artista francese Daniel Buren spiega la sostanza del suo lavoro “in situ”, fondato sulla matrice minima della striscia che diventa opera solo nella congiunzione con il luogo che la esibisce. Spiega meglio: “Ci troviamo difronte alla seguente sproporzione: o l’opera sta al suo posto, lo studio, e non ha luogo (per il pubblico) o si trova in uno spazio che non è il suo, il museo, e allora ha luogo”.
Nel 1970 Buren è invitato alla VI Mostra Internazionale del Guggenheim. Progetta Pittura/Scultura: 250 mq di tela rigata bianca e azzurra sono appesi nel vuoto della spirale wrightiana, mentre 150 mq dello stesso tessuto si librano all’esterno, sulla Quinta Strada. “Per la prima volta non si girava più intorno a uno spazio ma intorno a un’opera, che rivelava man mano ogni suo aspetto pur offrendosi frammento per frammento e che, sospesa nel vuoto, rafforzava l’idea stessa dell’architettura del Guggenheim, che gioca sull’assenza di muri”. L’opera scatena il finimondo: indignati all’idea che la fruizione dell’opera di Buren avrebbe fatto volgere le spalle a quelle collocate lungo le rampe, gli artisti pongono l’aut-aut, o loro o Buren. Per non snaturare l’intervento, quest’ultimo rinuncia a esporre. Ha così una duplice conferma: “Il Museo/Galleria non è il luogo neutro che vorrebbero farci credere” e, in particolare, “il Guggenheim è un perfetto esempio di architettura che, pur accogliendo e avvolgendo, esclude in realtà quanto vi si mostra a favore della propria esposizione. Serrante sì, ma per soffocare.
Il Guggenheim si comporta verso l’arte che ospita come una madre abusiva. Architetture del genere sono nefaste all’arte così com’è e nel contempo sono rivelatrici dei limiti di detta arte. Queste architetture sono amene”. Come dire che l’arte, per competere con uno spazio così prepotente, deve mostrare la stessa grinta: quella di Mario Merz, ad esempio, presente al Guggenheim nella collettiva del ’71 e, nell’89, con una personale. La spirale è per Merz lo spazio più congeniale. La progressione numerica di Fibonacci, infatti, che adotta dal ’70, “implica proliferazione piuttosto che un senso puramente matematico”; ogni numero risulta dalla somma dei due precedenti. La sua espressione formale più adeguata è la continuità e sinuosità della spirale: “la forma del vuoto, la forma del pieno. La spirale è nella conchiglia, nella lumaca, nell’orecchio, nel vortice del torrente, nel primario dei numeri in espansione”. Nella collettiva del ’71 dispone quella serie lungo la balconata interna: il movimento ascensionale risulta così parossisticamente accelerato. Essa “ha il potere di rendere leggeri i muri e di far diventare casuali le foto, i quadri, gli specchi, le carte, gli oggetti presenti all’interno…I numeri appoggiati alle pareti finiscono per espandersi con l’impressione che non finiscano più. Sembra che la spirale succhi via l’interno del Museo”. Nell’89, invece, occupa l’intero Museo: le rampe, la balconata esterna con la progressione numerica rossa disposta in verticale e il grande invaso centrale dove campeggia Città irreale, tre igloo concentrici dalla superficie sfaccettata di vetro che evocano la struttura del lucernaio soprastante.
Nello stesso anno, a pochi mesi di distanza, la giovane artista americana Jenny Holzer ne riprende la soluzione: lasciando in penombra le gallerie, interviene lungo la balaustra, dove snoda per 180 metri un nastro elettronico scoppiettante di sentenze. Al linguaggio astratto dei numeri Holzer predilige, sin dal ’75, quello delle parole, non già in chiave concettuale e tautologica ma quale veicolo per trasmettere messaggi politici, psicologici, personali. Per decifrare i testi, l’occhio è costretto a percorrere la spirale. In prossimità del grande atrio di Bilbao, invece, quelle sequenze di parole scorrono lungo i pilastri, smaterializzandoli.
Ricordiamo infine Dan Flavin. Come Buren e Merz, opta per il centro: “Untitled for Tracy to celebrate the love of a lifetime” del ’92 è una colonna di luce bianca alta quanto il Museo e composta di dieci tubi al neon. Posta, a mo’ di perno, esattamente al centro della rotonda, è allo stesso tempo diafana e incombente.
Assecondare l’andamento centrifugo della spirale o contrastarlo occupando il centro: queste le due possibilità, pro e contro l’architettura. Le stesse che vogliamo verificare con gli stessi artisti in altri spazi.
Nel ’70, Merz è invitato a esporre alla Haus-Lange di Mies van der Rohe a Krefeld. A differenza del Guggenheim, incontra qui uno spazio razionale e cristallino, dominato dalle ortogonali. Pensa allora per contrasto a una spirale di cera che, partendo dal centro dello spazio, si espanda verso l’esterno in modo tale che “incontrando i muri, vi passi attraverso, rompendoli idealmente. La spirale avrebbe funzionato da deflagratore dei calcolati equilibri, in una compenetrazione spaziale che celava anche una dichiarata volontà di confronto diretto con quello spazio. Volevo fare un oggetto che fosse completamente dentro questo edificio e che fosse tutto il contrario di questo edificio così perfetto: così è nata la spirale e insieme a essa avevo iniziato a pensare a delle minacce sullo spazio”. Il progetto non fu mai realizzato ma, esattamente vent’anni dopo, alle prese con il Museo Pecci progettato dall’architetto Gamberini a Prato, Merz riprende e porta a compimento la stessa idea. Una spirale di fascine, ferro e pietre, lunga 300 metri, parte dall’esterno per salire al primo piano e snodarsi nelle dieci sale del Museo.
Nell’82 è la volta di Buren che interviene contemporaneamente nella Haus Lange e nella Haus Esters, entrambe di Mies van der Rohe, entrambe musei comunali di Krefeld. Plan contre-plan consiste nello slittamento della pianta della prima casa sulla seconda in modo che le due entrate coincidano e che le sale della Haus Esters siano tutte praticabili. In altezza, le pareti bianche di quest’ultima dialogano con quelle della Haus Lange rivestite di tessuto a righe bianco e rosso. La sovrapposizione dei due musei non solo genera un percorso espositivo labirintico ma crea una stimolante ambiguità tra chi espone e ciò che è esposto. “Salvare un capolavoro architettonico trasformandolo in oggetto-museo è, almeno dal punto di vista concettuale, cambiare il piano originario di Mies. E’ quanto ho voluto sottolineare trasportando una casa nell’altra. Essendo le due case divenute musei, non c’è più esposizione dell’opera in senso usuale, ma esposizione di un museo in un altro museo. La loro sovrapposizione crea una sorta di barocchismo dello spazio”.
Dissonante è certamente l’intervento di Merz nella Nationalgalerie di Mies a Berlino, nell’87. Alla elegante stereometria del prisma vitreo, librato su pilastri di ferro, l’artista contrappone la semisfera dell’igloo di vetro, dello stesso materiale, dunque, ma dal profilo frammentario e discontinuo. “Siamo di fronte a una compenetrazione di spazi opposti. C’è un’approvazione e disapprovazione simultanea nei confronti dell’edificio di Mies”. Dall’igloo La goccia d’acqua fuoriesce un lungo tavolo triangolare che culmina all’estremità in un recipiente dove cade lentamente ma inesorabilmente una goccia d’acqua, che ritma il trascorrere del tempo. La direzione centrifuga del tavolo non solo conferma che “nel mio lavoro c’è una volontà di uscir fuori piuttosto che rimanere all’interno” ma conduce nuovamente alla lezione organica di Wright. Dichiara infatti Merz: “Io vedo che le nostre forme vivibili possono essere create più dall’interno verso l’esterno che da una forma esterna che chiude… Fabbricare il tavolo prima di costruire la casa equivale per me a mettere in discussione lo spazio della casa… Comincio con il tavolo perché sono importanti i mobili e non le pareti”. Tra le tante versioni, quadrate, triangolari, frugali, imbandite con opulenza, trafitte da neon, giornali, fascine, Merz predilige naturalmente quella a spirale. “Perché ho fatto il tavolo a spirale? Più vado avanti e più mi accorgo che è un’invenzione straordinaria; in realtà siedi a tavola e non sai mai dove sei, se verso il centro o verso l’esterno; è una concezione dello spazio vista attraverso il tempo… Penso il tavolo a spirale come un modo di architetturare, cioè di fabbricare una città ideale in cui il centro sia legato alla periferia da un continuum e non da un fatto puramente casuale”.
Se, ancora, la serie di numeri in verticale disposti all’esterno della Mole Antonelliana a Torino ne accentua la verticalità, quella dislocata lungo la tronfia e monumentale facciata piacentiniana del Palazzo delle Esposizioni a Roma, in occasione della mostra “Città Natura” del ’97, ne contesta ogni simmetria.
Nel marzo 2001 Jenny Holzer è invitata alla Nationalgalerie di Berlino. La reazione al cospetto del prisma trasparente è di deferente rispetto. Lungi dall’ingombrare lo spazio o, peggio, le pareti vitree, ne radicalizza la smaterializzazione: lungo le travi del soffitto dispone infatti lunghi nastri digitali sui quali scorrono a velocità diverse parole, frasi e poesie in inglese e tedesco. Leggibili solo se sdraiati sulle poltrone dello stesso architetto, quelle lame di luce procedono oltre l’involucro per illuminare la notte berlinese. Contestualmente, Holzer interviene sulla parete lacerata del museo ebraico di Libeskind con proiezioni che raccontano la storia lunga e travagliata del rapporto tra gli ebrei tedeschi e la Germania.

Nel 1989, The Relationship between Art and Architecture, è tema di un importante simposio svoltosi a Santa Monica in California: due giorni di dibattito serrato tra artisti quali Daniel Buren, Donald Judd e Robert Irwin, architetti del calibro di Peter Eisenman, Frank O. Gehry, Michael Graves e Cesar Pelli, critici d’arte, curatori, psicologi e psicoanalisti. La discussione verte su due temi: la relazione tra le due discipline e il museo come “luogo dello scontro”. Circa il primo, se Eisenman e Pelli sono per il conflitto, Judd propende per la reciproca autonomia. Da postmoderno convinto, Graves è invece per i travasi: architetto, pittore, scultore e critico, dichiara che la caratteristica di ogni architettura risiede nella “scelta stilistica”. Se Irwin mantiene le distanze, Gehry dichiara come fonte d’ispirazione la pittura e la scultura. Ma la forbice tra le posizioni si allarga quando il dibattito entra nel vivo del museo: Judd e Irwin giudicano quelli di recente costruzione “ostili all’arte”, perché il loro compito è di servirla “nello stesso modo in cui una stazione serve i treni”. Scatenano così le ire di Eisenman per il quale il conflitto tra arte e architettura va alimentato e radicalizzato; un museo vale solo se è architettonicamente qualificato, cioè ostile all’arte, se la sfida a rinnovarsi continuamente. Il critico Jean-Louis Cohen sposta la discussione sul caso del Centro Pompidou: interessante e stimolante per Buren, è per Judd “il peggior museo al mondo”. Il conclave si chiude con una fumata bianca: le posizioni, forse un po’ stemperate, rimangono sostanzialmente due e inconciliabili: da una parte i fautori della sfida fra arte e architettura di qualità, guidati da Eisenman e Buren, dall’altra i fanatici dell’autonomia dell’arte e della neutralità dell’architettura, con in testa Donald Judd.
Il dibattito riprende nel dicembre ’92 sulle pagine di Architecture d’aujourd’hui che gli dedica due numeri consecutivi. Il primo mette a fuoco artisti, tematiche e movimenti: la pittura bianca di Robert Ryman e il suo aggancio alla parete, i percorsi disorientanti e incombenti di Richard Serra, i wall drawings spericolati di Sol LeWitt, le austere sequenze modulari di Donald Judd ambientate a Marfa in Texas dove l’artista ha acquistato e ristrutturato una serie di hangar per ospitarvi i suoi lavori e quelli degli amici più stretti. L’indagine monografica si conclude con gli spazi-luce di James Turrell. L’Ambiente spaziale di Fontana del ’51 apre invece il capitolo sulla “luce”, seguito da una carrellata di artisti che ricorrono a quel medium: da Joseph Kosuth a Dan Flavin, da Bruce Nauman a Francois Morellet, da Maria Nordman a Jenny Holzer a Michel Verjux. L’elenco di quanti scelgono come riferimento la natura è sterminato e annovera evidentemente i protagonisti della Land Art e dell’Arte Povera. Nel paragrafo “tempo” incontriamo per primo Jean Tinguely con Homage to New York, seguito da Dennis Oppenheim, Haans Haacke e Joseph Beuys. Il primo fascicolo è dunque una attenta ricognizione che, in assenza della controparte architettonica, schiva accenti polemici. Certo, Serra rimarca che “quando la scultura occupa lo stesso spazio e lo stesso luogo dell’architettura, quando ridefinisce lo spazio in sintonia con le necessità della scultura, l’architetto si arrabbia” e LeWitt ribadisce che, a differenza dell’architettura che è funzionale e legata al committente, l’arte è libera e risponde solo a se stessa ma, tutto sommato, i rapporti vanno a gonfie vele. Le illustrazioni mostrano infatti plurime assonanze formali: Mario Merz e Coop Himmelblau, Michael Heizer e Vittorio Gregotti, Richard Meyer e Jean-Pierre Raynaud, Frank Gehry e Gordon Matta-Clark, Daniel Buren e Jean Nouvel, Tadao Ando e Sol LeWitt. Nel secondo fascicolo, invece, quando entrano in campo gli architetti, il dibattito si accende. Charles Vandenhove parla chiaro: il compito degli artisti è abbellire l’architettura, magnificare lo spazio. Urge evitare i due estremi della Cappella Sistina, annientata dalla pittura di Michelangelo, e di quella di Rochamp, dove Le Corbusier rifiuta la presenza di Fernand Léger. Per questo, lui opta per “decoratori” quali Buren, LeWitt, Viallat e Toroni. Di nuovo, le posizioni si polarizzano: se Buren è per l’autonomia perché “l’artista ha tutto da perdere a mettersi nei panni dell’architetto”, sia Gehry sia Jean Nouvel optano per la contaminazione.
Purtroppo, a differenza di allora, l’arte e l’architettura sembrano vivere oggi una stagione felice e armoniosa: le differenze sfumano, i confini si atrofizzano, gli sconfinamenti si moltiplicano, il cimento si sposta dalla difesa bellicosa della propria identità, alla rincorsa a effetti speciali e spettacolari. Il Museo non è più il “luogo dello scontro” perché, se come afferma Merz “nella cultura di oggi l’edificio diventa più importante della funzione”, l’arte, espulsa dal suo luogo deputato, vive una condizione diasporica.

oltre il quadro

Buren e Judd rappresentano due accezioni estreme di uscita dal quadro, la svolta epocale che, più o meno contestualmente, ha luogo a opera di Jackson Pollock e Lucio Fontana. Se, nel suo procedere centrifugo, il dripping genera uno spazio senza cornice, il buco di Fontana addita la terza dimensione reale, oltre lo schermo plastico.
“Non mi sembrava affatto ovvio che un quadro dovesse andare al muro. Coinvolgere il muro significava mettere in discussione il luogo. Volevo vedere come fosse possibile incorporare il muro e il luogo in qualcosa di ancora visuale. Il passo successivo fu la consapevolezza che l’architettura era inseparabile da questo problema”, dichiara Buren. Il superamento della dimensione pittorica implica dunque la simbiosi con l’involucro architettonico ma non, come intende Vandenhove, in modo subordinato e passivo. Quando infatti la sequenza di strisce satura la parete, la emancipa da una falsa neutralità, quando si distribuisce su due muri contigui, traduce la cesura angolare in una continuità, quando percorre ambienti diversi, ne vince la frammentarietà, quando sottolinea zoccoli o tubi, concentra l’attenzione su dettagli negletti, quando slitta sulle pareti la foggia delle aperture e dei passaggi tra gli ambienti, ne contrasta il prospettico allineamento, quando invade porte e finestre, scale e corrimano, supera la dicotomia interno-esterno, quando infine si affissa sui muri cittadini, nelle stazioni della metropolitana, sui cartelli di un corteo o sulle barche da città, dichiara che l’arte, non più confinabile nei luoghi deputati, appartiene alla città e ai suoi abitanti.
Il dinamismo spaziale innescato da Buren attraverso le superfici trova un nobilissimo precedente nella vicenda neoplastica, dove arte e architettura incontrano la loro sintesi nel piano. Scomposta la scatola architettonica in setti bidimensionali, la pittura, piatta e monocroma, li commenta, anima e distingue. “Il paesaggio prospettico ha spezzato la superficie architettonica in profondità. Una moderna pittura piatta, introdotta in un’architettura piatta, spezza il ritmo di questa architettura in altezza e in larghezza. Il piano costruttivo uniforme è destato e fatto rivivere dal suo irrigidimento dalla moderna pittura piatta…L’architettura mette insieme, congiunge. La pittura separa, disgiunge..”, proclama nel ’17 Theo van Doesburg, sottolineando la distanza tra l’affresco rinascimentale e quello moderno, tra quello illusionistico e quello astratto. L’atrofizzazione del muro nella superficie vitrea, e, agli antipodi, le correnti architettoniche organiche, espressioniste e brutaliste che scolpiscono superfici e involucri, rigettano l’intervento pittorico. Si pensi al guscio progettato dall’architetto viennese Frederick Kiesler per la galleria di Peggy Guggenheim a New York, con sei anni di anticipo sulla spirale del Guggenheim. Il rapporto superficie piatta del quadro e supporto curvo è risolto sganciando le opere dalla parete con dei perni.
La tradizione dell’affresco riprende invece con forza negli anni Sessanta come alternativa al quadro. Protagonista indiscusso è Sol LeWitt, che esegue il primo dipinto murale nel ’68 nella galleria di Paula Cooper a New York. “Sembra più naturale lavorare direttamente sul muro piuttosto che fare una costruzione, lavorarci sopra e poi collocarla al muro”, spiega, in sintonia con Buren. “La trasposizione operata da LeWitt dei suoi disegni dal formato tradizionale e limitato del foglio di carta allo spazio architettonico di una parete, con la quale si identificano completamente, costituisce un passo rivoluzionario. Il gesto di LeWitt ha per il disegno la stessa rilevanza che ha avuto negli anni Cinquanta la tecnica del dripping di Pollock”, annota acutamente Bernice Rose in occasione della retrospettiva dell’artista al MoMA di New York nel ’78. Il riferimento a Pollock è calzante: l’urgenza di uscire dal quadro additata dal maestro astratto-espressionista si coniuga, nella generazione successiva, con quella di raffreddare e concettualizzare l’impeto gestuale e materico. Così, Drawing Series I,II,III,IIII sbroglia la matassa del dripping, ne estrae le quattro traiettorie fondamentali per combinarle in orizzontale, verticale e diagonale. Come teorizzerà due anni più tardi nel prontuario dei wall drawings, il disegno è “il più bidimensionale possibile” e si mimetizza con la parete. Concepito dall’artista, è realizzato da una folta schiera di assistenti: come in un grande cantiere medioevale, un capo mastro istruisce i giovani discepoli a tracciare linee e curve, a misurare distanze, a preparare le pareti, a mescolare e stendere il colore, a tradurre insomma un progetto di massima in un esecutivo. La storia ultra trentennale dei wall drawings può leggersi allora come quella del rapporto appassionato e dinamico tra artista e contesto architettonico, dove il primo, come l’architetto, si limita all’ideazione, senza “scavare da solo le fondamenta del suo edificio e mettere i mattoni uno sull’altro”.
Le prime prove a grafite sono timide e reticenti, rispettose della natura del supporto. “Il problema che sorge quando si utilizzano le pareti è che l’artista è alla mercé dell’architetto”. Vale a dire che: “le caratteristiche fisiche del muro: altezza, lunghezza, colore, materiale, condizioni e accidenti architettonici sono parte integrante dei wall drawings”, come pure le imperfezioni, irregolarità, crepe, buchi e macchie. Ma timidezza e discrezione hanno vita breve, quella necessaria per sondare le combinazioni di tutte le linee possibili: dritte, non dritte, intere, spezzate, lunghe o corte, dense o rarefatte, degli archi, dei cerchi e delle griglie. Tutto rigorosamente nero su bianco o, come nella complessa installazione alla Biennale di Venezia del ’76, bianco su nero. Se Buren limita il vocabolario formale alla striscia, LeWitt si spinge oltre. Dopo i “Location Drawings” degli anni Settanta che affacciano figure geometriche piane, gli “Isometric Drawings”, dal 1981, costituiscono una svolta radicale. Cubi, piramidi, parallelepipedi, tronchi di piramide occupano ora il campo violando per la prima volta la bidimensionalità del supporto, anche se l’adozione della rappresentazione assonometrica consente di descrivere un volume in termini bidimensionali, come indicato dalla pittura purista prima e da quella precisionista poi. Con il procedere degli anni Ottanta, il vocabolario formale si arricchisce di “forme complesse”, “forme continue”, “forme inclinate”, “piramidi asimmetriche” che, indifferenti ai confini della parete, proseguono virtualmente sotto il pavimento e oltre il soffitto, scavalcano, ignare di ostacoli e cesure, porte e finestre. Quanto alla loro rappresentazione sul piano, l’assonometria cavaliera si deforma sino a rasentare una sorta di illusionismo anche se il colore, ora nella gamma degli inchiostri che si sovrappongono in misteriose e affascinanti miscele, bilancia la prepotenza del disegno. Non è un caso se il precedente indicato da LeWitt siano gli affreschi quattrocenteschi, che ha modo di scrutare durante le lunghe permanenze a Spoleto, dove le forme violano illusionisticamente la superficie mentre il colore a essa li riconduce. I wall drawings più recenti, pur nella coerenza metodologica, sono sensuali e accattivanti: complicatissimi e vivacissimi puzzle visivi, contemplano le possibili combinazioni di strisce orizzontali e verticali, di raggiere, cerchi concentrici, fasce ondulate, fino a includere nuove figure come i blobs e i loopy doopy. Mentre i colori sono chiassosi e luminosi, nelle gamme dei fondamentali e dei complementari.
C’è una vicenda di particolare rilevanza: l’affresco delle superfici esterne della cappella della Santissima Madonna delle Grazie a La Morra, nella zona del Barolo, eretta all’inizio del secolo da un ricco contadino come ricovero dalle intemperie, e acquistata dai fratelli Ceretto, noti produttori vinicoli. Umile e dimessa, in mattoni, la chiesetta è trasfigurata da LeWitt in un prezioso avamposto nel paesaggio. L’artista rispetta le compartimentazioni stabilite dai profili di mattoni, per campirle in modo differenziato: in facciata attribuisce a ogni zona un colore, il giallo, il rosso, l’azzurro e i loro complementari; l’abside è invece trattato a strisce verticali mentre nei fianchi motivi ondosi verticali si alternano ad altri orizzontali. In lizza con la dolcezza del paesaggio circostante, LeWitt ne riprende però l’andamento serpeggiante. L’interno della chiesa è invece affrescato dall’artista inglese David Tremlett. La sua strategia è antitetica a quella di attacco di LeWitt: ai contorni netti e taglienti, ai colori stridenti, Tremlett contrappone un andamento morbido e sensuale, nelle campiture del pavimento marmoreo ma soprattutto nelle gamme modulate dei pastelli e nelle linee sinuose che occupano le pareti e l’abside dell’unica navata. Se il prezioso avamposto di LeWitt disdegna qualsiasi mimesi naturalistica, l’intervento di Tremlett evoca il paesaggio, tanto nell’andamento del disegno quanto nella pastosità del colore. A differenza di quelli di LeWitt, ostinatamente impersonali, i wall drawings di Tremlett ostentano inoltre una forte componente soggettiva, un riferimento alla realtà vista e vissuta.
LeWitt è dunque convinto che l’osmosi tra pittura e supporto scongiuri ogni valenza illusionistica. Di opposto avviso è Donald Judd quando, nel testo canonico Specific Objects del ’65, decreta l’irrevocabile natura illusionistica della superficie dipinta: “Qualunque cosa posta sulla superficie presuppone qualcosa dietro di sé. Due colori sulla stessa superficie giacciono a profondità diverse. Persino un solo colore è allo stesso tempo piatto e infinitamente spaziale”. Se “le tre dimensioni sono spazio reale”, Judd e il plotone minimalista, cui appartiene inizialmente lo stesso LeWitt, occupano lo spazio con strutture tridimensionali semplici ed elementari, asettiche nei materiali e nella lavorazione industriale, organizzate senza ordine compositivo, in sequenze modulari e seriali. “L’ordine non è razionale e a-priori ma semplice ordine, quello della continuità, una cosa dopo l’altra”. La forma stereometrica degli oggetti specifici e la loro scala, tra “il monumento e l’ornamento”, tra la dimensione “pubblica” e quella “intima”, come spiega Robert Morris, li distanziano tanto dalla scultura quanto dall’architettura. Della prima rifuggono infatti il carattere antropomorfico, della seconda quello funzionale. Ma l’accanimento con cui gli artisti prendono le distanze dall’ambito architettonico insospettisce. “L’architettura e l’arte tridimensionale sono di natura totalmente opposta. La prima si occupa di creare aree con una funzione specifica. Per non fallire nel suo scopo, l’architettura – che sia o meno un’opera d’arte – deve essere funzionale. L’arte non è funzionale”, sentenzia LeWitt nei “Paragraphs on Conceptual Art” del ’67. La dichiarazione, condivisa da Judd, contiene una duplice istanza. Poiché la forma, i materiali e l’organizzazione modulare e seriale degli oggetti specifici sono facilmente assimilabili tanto al “cubo bianco” degli spazi espositivi quanto alla struttura a griglia delle metropoli americane – come non pensare al rapporto lotto urbano-grattacielo al cospetto di “Cube/Base” di LeWitt del ’69 – il fattore funzionale diventa lo spartiacque tra le due discipline. Ma sancire, proprio negli anni di massima diffusione e successo dell’International Style, la distanza tra arte e architettura funzionale, significa dissentire dalla poetica che più ha contribuito a definire l’aspetto e il carattere delle metropoli americane. In “Ziggurats”, infatti, redatto nel ’66, LeWitt plaude a una tipologia urbana inaugurata dal piano regolatore del 1916, caratterizzata dal profilo scalare, gradonato, assimilabile alle sue coeve “Modular Structures”. Nell’attribuirgli lo status di “opera d’arte di valore”, contrappone lo ziggurat alla tipologia a lastra adottata dalle ossessive scatole vitree dei grattacieli. Vale ricordare che la critica di LeWitt, condivisa da Robert Smithson in “Ultramodernisme”, ha luogo nello stesso anno in cui Robert Venturi postula “complessità” e “contraddizione” in architettura, lo stesso in cui “Homes for America” di Dan Graham affaccia l’icona della casa suburbana. Da questo crocevia, dove arte e architettura convergono nella critica serrata alla sclerosi modernista, si diramano e si intrecciano svariati percorsi: se si esclude l’abominio postmodern, l’architetto Peter Eisenman condivide l’istanza anti-antropomorfica del minimalismo tanto da teorizzare l’architettura concettuale, mentre l’artista Donald Judd cede alla vocazione architettonica. Restaura il suo loft a Spring Street e gli hangar a Marfa dove ospita la Chinati Foundation, progetta mobili e ipotizza organismi architettonici di stretta osservanza razionalista: “Il mio assioma è che la forma non debba mai violare la funzione. Le forme per le forme, ignare della funzione, sono ridicole”, conferma Judd, confessando la sua predilezione per Wright, Le Corbusier, Mies e Kahn. La presenza di Wright è alquanto sorprendente: l’architettura organica, al pari della pittura astratto-espressionista è infatti tacciata da Robert Smithson di biomorfismo, il peggior nemico delle strutture tridimensionali. “Nei quadri di
Willem de Kooning e Jackson Pollock è possibile riscontrare tracce della metafora biologica. In architettura essa prevale soprattutto nelle teorie di F.Ll. Wright. Il Museo Guggenheim è forse il risultato più viscerale di Wright. Nessun edificio è più organico di questo tratto digerente rovesciato. I corridoi sono intestini metaforici. E’ uno stomaco di cemento”, sentenzia Smithson in “Quasi-Infinities and the Waning of Space”.
All’ “hic et nunc” minimalista fa da contraltare, dall’altra parte dell’oceano, l’angosciata consapevolezza della storia.
“Il problema è di capire cosa ci ha spinto a uscire dal quadro. Il mio primo momento dialettico è stato con l’Informale. Ho così capito lo spessore di Pollock e l’inconsistenza di Fautrier. Perchè inconsistenza? Perché lo schema centralizzante di Fautrier mi è apparso fantasmagorico, mentre Pollock aveva cercato di rompere la centralità. Da questa constatazione è uscita la mia generazione, o meglio ne sono uscito. L’apertura non è stata scenica, né scenografica, si voleva trovare una realtà dell’immagine, che la centralità non possedeva”, così Jannis Kounellis. Le lettere, i numeri e le frecce che dipinge nel ’60 su grandi superfici bianche assumono la dimensione ambientale di Pollock ma sostituiscono i rivoli di pittura con immagini concrete e reali. Il passo successivo è attestato da un’immagine del ’66 che ritrae lo studio dell’artista. Un grande sipario di sacchi di tela cuciti insieme è precariamente appuntato alla parete, per adagiarsi poi al suolo. Un quintale di carbone giace a fianco, in un angolo. L’andamento libero dei sacchi che ricorda, con un anticipo di due anni, i feltri in preda alla gravità di Robert Morris, come pure la disposizione casuale del carbone sul pavimento, certificano che l’opera non è più autonoma, ma vincolata a quello spazio specifico. Il confronto con l’affresco è quanto mai calzante: “La dimensione è l’appoggio architettonico; la formazione di un’immagine avviene all’interno dei confini architettonici. Un quintale di carbone in una stanza ha le dimensioni fisiche di un affresco”. La distanza dalle soluzioni minimaliste è eclatante. “Quando si parla della pittura italiana, si parla di una possibile diversità difronte alla logica ferrea del quadrato. Il nostro lavoro ha messo in crisi il quadrato. Ci sono due possibilità: avere un’immagine unica o rappresentare una situazione culturale. La definizione unica è idealista, legata al mondo puritano e calvinista. Il quadrato minimalista ha tradotto le motivazioni popolari e l’idea della storia in un dato strettamente metrico”. Diversamente dal quadrato di Mondrian che origina nel dato naturale e di quello di Malevic “nel cui bianco c’è del giallo, la memoria dell’oro bizantino”. Il mucchio di carbone, allora, è allo stesso tempo formalmente e ideologicamente agli antipodi del cubo minimalista; non azzera la storia ma trova lì la propria giustificazione; non insegue certezze ma registra dubbi e contraddizioni, esprime insomma la crisi d’identità e lo spaesamento della generazione che esordisce in Europa nel dopoguerra.
Da quella prima uscita dal quadro, il rapporto con lo spazio diviene per Kounellis ineludibile. E’ forse l’artista della sua generazione a misurarsi con i luoghi più numerosi e disparati: canonici e anomali, aulici e umili, anonimi e architettonicamente connotati, laici e religiosi, pubblici e privati, al chiuso e all’aperto. Perché per Kounellis ogni spazio è “una cavità teatrale”, ogni mostra la rappresentazione di un dramma. Così, se nel suo repertorio linguistico ricorrono costanti riconoscibili, dai materiali- ferro, pietra, legno, vetro, fuoco, stoffa, carta, carbone, caffè, granaglie, uccelli- alla composizione- dove un elemento pesante e rigido come la lastra o il contenitore ne sostiene uno fragile e organico- alla misura – quella umana- l’originalità di ogni interpretazione dipende dal luogo, in accezione architettonica, storica e sociale. Così, lasciando lo studio “con le mani in tasca”, Kounellis affronta ogni nuova sfida espositiva: attraversa freneticamente lo spazio in lungo e in largo per coglierne lo spirito; visita i mercatini locali per apprendere costumi e abitudini; studia e ascolta storia e tradizioni locali per coinvolgerle nel dramma. Oltre al pavimento e alle pareti, i luoghi privilegiati in cui Kounellis dispone i lavori sono le aperture: porte e finestre. Nel ’69, a S.Benedetto del Tronto, occlude per la prima volta una porta con pietre a secco, ricorrendo a un sistema costruttivo arcaico, in uso in Grecia e nel Mezzogiorno d’Italia. Ripeterà l’operazione in altri contesti, al Belvedere di Praga, al Martin Gropius-Bau di Berlino, al Wiener Secession & Am Steinhof di Vienna, all’Art Museum of the Ateneum di Helsinki, al Capc Musée d’Art Contemporaine di Bordeaux, sostituendo o aggiungendo alle pietre legni, ferri, libri, sacchi, calchi e frammenti scultorei. “Riempiendo la cavità, la teatralità prende corpo, diventa un discorso linguisticamente credibile”, spiega Kounellis. Saturare le aperture equivale a chiudere e concentrare lo spazio, creando una circolarità che impedisce ogni fuga verso l’esterno. Lo stesso effetto raggiunto dalla fila di fuochi che circuita la galleria Jolas di Parigi nel ’69, dal fregio di sacchi di carbone alla Biennale di Venezia dell’88, dalla sequenza di lastre di ferro che supportano 800 rotoli di piombo, creata appositamente per gli spazi della Ace Gallery di New York nel ’97 e riproposta a Città del Messico, Buenos Aires e Montevideo tra il ’99 e il 2001. Proprio in questi lavori, fondati sulla ripetizione ossessiva di uno stesso elemento, è più evidente la distanza dalla iterazione minimalista: in Kounellis essa rafforza e ribadisce l’immagine, mentre in Donald Judd la anestetizza. “E tutto questo per dire che quello che afferma Donald Judd nel suo scritto manifesta i difetti di sempre di taluni pittori americani: se non si comprendono le motivazioni popolari e l’idea della storia sul perché una forma ha una sua autenticità, la lettura dei lavori rimane dal punto di vista formale un dato strettamente metrico”.
Memore dei contrafforti che sostengono la complessa struttura delle cattedrali gotiche, Kounellis ne aggiorna il sistema di spinte e contro spinte. Nel ’91, a Pulheim in Germania, nell’unica sinagoga sopravvissuta alla furia nazista, puntella il soffitto e il pavimento del matroneo con tre pilastri di legno culminanti in una pietra e disposti nello spazio a tracciare mezza Stella di Davide. Come nei contenitori di ferro che raccolgono carbone, cotone, libri o cactus, come nelle lamiere di ferro che supportano bicchieri, uccelli, carbone e quant’altro, Kounellis applica al pilastro o, meglio, alla colonna sormontata dal capitello, lo stesso rapporto tra “organicità e astrazione”. Nelle molteplici soluzioni successive, la struttura portante sarà indifferentemente di legno o di ferro, mentre la gamma dei capitelli spazierà dalle risme di carta a quelle di ferro, dai cappotti alle coperte agli armadi. Oggetti comuni dalle dimensioni umane, variabili con le epoche e i contesti, questi ultimi sono anche cavità che, come a Monaco nell’82 o a Buenos Aires nel 2000, Kounellis riempie di pietre come fossero porte. Nel Real Albergo delle Povere a Palermo nel ’93, innalza per la prima volta gli armadi al soffitto in duplice soluzione: conficcandone uno come capitello tra un pilastro di legno e la volta e costruendo una sorta di inquietante cielo barocco che, anziché risucchiare lo spettatore in uno spazio illusorio, apre le sue ante verso lo spettatore. La stessa disposizione sarà ripresa a Napoli nel portico colonnato di piazza Plebiscito, mentre nel Castelluccio di Pienza, gli armadi sono incastrati tra i puntelli di ferro disposti diagonalmente a mo’ di contrafforti e la parete esterna dell’edificio in pietra. La forza della spinta contrasta la fragilità degli armadi, sul punto di essere sbriciolati. Ai puntelli verticali e ai contrafforti diagonali, Kounellis aggiunge, a Chateaux de Plieux nel ’95, altre due ipotesi: quella orizzontale, a comprimere le pareti laterali, e la combinazione dell’orizzonale e delle diagonali che, nel succedersi lungo il corridoio, configurano una sorta di navata.
Ricordiamo altre due rappresentazioni imponenti e drammatiche di Kounellis. Nel ’94, invitato dalla Fondazione Costopoulos a tenere una mostra ad Atene, opta per una grande imbarcazione adibita al trasporto di derrate alimentari e ancorata nel natio porto del Pireo. Se il viaggio è la metafora scelta da Kounellis per il suo percorso artistico, la barca è il mezzo di trasporto prediletto e come tale ricorre sin dagli esordi. Nel ’69, ad esempio, per il manifesto stampato in occasione della mostra da Lucio Amelio a Napoli, si fa ritrarre a prua di un peschereccio diretto al porto; nel ’93, invitato alla Biennale di Venezia, issa nello spazio riservatogli ai Giardini, le grandi vele multicolori di una barca da pesca. La navigazione non è sempre con il vento in poppa, ma spesso turbata da tempeste e bufere; la nave può naufragare e i resti, come quelli di “Albatros”, essere recuperati ed esposti a “Metropolis” a Berlino nel ’91. Nel cargo della nave Ionion, dunque, Kounellis occupa anfratti e recessi con la sua storia ultratrentennale; come sempre, non si tratta di un’antologica ma di un atto unico. Tale è la simbiosi tra opera e luogo che Bruno Corà paragona l’intervento a quello di Masaccio nella Cappella Brancacci a Firenze e a quello di Rothko nella Cappella omonima di Houston. Il secondo evento ha luogo, nel 1999, nella gigantesca chiesa di San Agustin a Città del Messico, eretta nel 1692, seconda solo alla Cattedrale. Nella grandiosa navata barocca Kounellis crea un percorso tortuoso punteggiato da quattro grandi cumuli di pietra squadrati, poggiati su carrelli, la cui copertura è celata da immensi lenzuoli bianchi. Se queste abitazioni arcaiche rimemorano quelle affrescate nelle chiese medioevali, i drappeggi che le nascondono riprendono quelli delle statue laiche che affiancano la navata. Circuisce i blocchi, come una corona di spine, una danza di croci di ferro cadute. Nell’abside, dove la Crocifissione originaria in pietra è stata smembrata e sostituita dalla sua riproduzione fotografica, Kounellis installa la sua duplice Crocefissione. Una immensa T di ferro poggia sulle finestre laterali che ne decidono l’altezza. A uno dei due bracci è appesa la Crocifissione di legno con il sacco di farina trafitto dal coltello, esposta per la prima volta a Gubbio nel ’96. Tale sdoppiamento genera un effetto spaziale dirompente. Se, infatti, dall’ingresso principale, la croce di ferro coincide esattamente con quella scolpita, quella di legno scongiura, grazie al suo decentramento, ogni fulcro prospettico; dinamizza anzi lo spazio e invita a procedere verso le navate laterali dove, su cavalletti di ferro, poggiano opere storiche, altre rieditate, altre inedite. Tra queste ultime figurano, in due grandi armadi che albergano nella chiesa da quando nel 1867 il liberale B. Juares la destina a Biblioteca Nazionale del Messico, pile di tele di sacco piegate, sequenze di cactus e gabbie di uccelli a saturare i piani, mentre nel matroneo, stoffe messicane antiche e coloratissime sono trattenute da traversine di ferro su lastre dello stesso materiale.

spazi anomali

Il numero relativamente esiguo di strutture museali, la loro inadeguatezza spaziale ma, soprattutto, l’ostracismo istituzionale nei confronti delle poetiche “oltre il quadro”, spiegano in parte l’enorme successo incontrato, a partire dagli anni Settanta, da un lato dalle Kunsthalle, dall’altro da luoghi eterodossi quali impianti industriali dismessi o vecchie dimore storiche. Un successo che ha coinvolto nel tempo le stesse strutture museali. La Tate Modern, nuova ala dello storico museo londinese, ospitata negli spazi della vecchia centrale elettrica di Bankside, lo conferma, anche se, a differenza di altri spazi, restaurati solo il tanto necessario a renderli agibili, Herzog & de Meuron hanno modificato la struttura originaria della copertura.
Si tratta, nel caso degli impianti industriali, di architetture senza architetti e senza qualità, progettate in ottemperanza a esigenze funzionali più che estetiche, luminose ed essenziali, di dimensioni imponenti. Per questo, forse, Donald Judd, accanito detrattore di luoghi espositivi architettonicamente connotati, ha optato, come sede per la Chinati Foundation, per un complesso industriale situato in un luogo sperduto del Texas.
Agli antipodi, castelli, palazzi e dimore storiche sono architetture uniche, estremamente personalizzate. Sorge dunque il sospetto che, prediligendo architetture senza autore e organismi antichi, gli artisti sfuggano il confronto diretto con l’architettura contemporanea, con cui dovrebbe invece essere vivo, attuale, alla pari.
Nell’enorme costellazione di spazi anomali, gli artisti sin qui nominati e in genere i protagonisti dell’Arte Povera, minimal e processuale svolgono spesso il ruolo di battistrada. Spetta infatti a Kounellis inaugurare nel ’69 il garage L’Attico di Fabio Sargentini con 12 cavalli vivi. Nel ’90, invece, lo stesso artista apre la serie di mostre alla Barcelona Fundaciò Espai Poblenau. Si tratta di una ex fabbrica di cemento a due piani dove la curatrice Gloria Moure ospita, dall’89 al ’95 tre mostre l’anno, dedicate ad artisti che non avevano mai esposto precedentemente in Spagna. Per la prima volta, Kounellis appende a ganci da macellaio quarti di bue: un lavoro inquietante ed evocativo, che esige il ricambio quotidiano del materiale esposto. Mario Merz costruisce al piano superiore una spirale con muri a secco, come quelli di Cadakes, intervallati da tavoli di vetro. Al piano inferiore dispone invece i numeri Fibonacci sui detriti avanzati dalla costruzione della spirale. Se Rebecca Horn organizza una sorta di caccia al tesoro deponendo in un bacino di mercurio i numeri corrispondenti a quelli delle stanze di un albergo dove sono dislocati altrettanti lavori, Boltansky concepisce una installazione sorprendente: raccoglie nel piano superiore una enorme quantità di indumenti acquistati alla Caritas, che i visitatori sono invitati a portare via in borse apposite, mentre in quello inferiore dispiega sulle pareti la pianta di Barcellona. Un faro da interrogatorio al centro dello spazio accompagna il suono delle registrazioni effettuate dalla polizia nel corso di 24 ore.
È ancora Kounellis a inaugurare, nel ’91, le dieci mostre nella sinagoga di Pulheim; ad aprire, senza seguito, la Salara di Bologna nel ’95 e, due anni dopo, l’imponente Museum Ludwig in der Halle Kalk, ex fabbrica adibita al taglio del vetro nei pressi di Colonia. Largo seguito ha invece, nel ’93, la mostra inaugurale del suggestivo e non finito Palazzo Fabroni a Pistoia nel ’93. Trascurando tanti altri spazi, parimenti affascinanti, da Dean Clough ad Halifax a Halle fur neue Kunst a Shaffhausen, dal Ludwig Forum di Aachen, ex fabbrica di ombrelli progettata nel ’27 da Josef Bachman nel migliore idioma Bauhaus, alla Galleria Arnolfini di Bristol, ex sala da the restaurata nel 1980 da David Chipperfield, ci soffermiamo brevemente sul notissimo Capc di Bordeaux, fondato e diretto da Jean-Louis Froment. L’Entrepot Lainé è all’origine un magazzino portuale costruito nel 1924 dall’ingegnere Claude Dechamps in stile neoclassico. L’immensa aula centrale retta da archi a tutto sesto che scaricano il loro peso su possenti pilastri, immette, attraverso altre arcate sormontate da matronei, nelle navate laterali e queste in altre ancora, mentre in altezza l’edificio si sviluppa su tre livelli. L’approccio degli artisti è estremamente diversificato. In quello “spazio immenso e pauroso”, Merz appoggia a una arcata, come fosse una spalla, l’igloo trasparente già incontrato alla Nationalgalerie di Berlino. Se la superficie curva riprende quella di arcate e arcatelle, l’igloo svolge qui la funzione di riparo, di “catalizzatore antipaura, che tiene la paura sotto di sé, al suo interno. Antipaura sia in senso religioso che in quello spaziale, contro la vertigine del vuoto”. Consapevole dell’esito sfavorevole di un confronto dimensionale, l’igloo sfugge il centro dello spazio.
Antitetica la soluzione di Richard Serra: tre lastre di ferro inclinate, al centro dell’aula, affondano parzialmente nel pavimento, destabilizzando il possente impianto statico del magazzino. Anche Kounellis punta al centro: serra i valichi laterali, vietando ogni fuga. Un’arcata è satura di sacchi piegati, un’altra di traversine di legno delle ferrovie, una terza di sacchi contenenti pietre e una quarta di legni disposti in diagonale. Le lamiere con i fuochi e tre pannelli colorati – bianco, rosso e nero – concentrano ulteriormente lo spazio. Anche Sol LeWitt ostruisce le aperture laterali con wall drawings che alternano righe orizzontali, verticali e diagonali in due, tre e quattro combinazioni, nelle gamme dei colori fondamentali. Travolgente e accattivante è infine l’intervento di Buren, tra il maggio ’91 e la primavera dell’anno successivo. Una grande superficie specchiante inclinata sostituisce il pavimento della navata centrale: volte, archi e finestre, sottolineati da strisce bianche e nere, subiscono una brusca e disorientante deviazione; se al primo piano la struttura rimane invariata, in quello superiore Buren ricava un corridoio che immette in ambienti differenziati dai colori piatti e dalle strisce che occupano pavimento, soffitto, pareti o loro porzioni.
In Italia, tra gli ex spazi industriali convertiti all’arte contemporanea ricordiamo i 50.000 mq dei Cantieri della Zisa a Palermo, ex Officine Ducrot. Se il loro merito è stato di avviare le attività espositive a cantiere ancora aperto, il loro declino annuncia quello della cosiddetta primavera palermitana. Attivissima è invece la Fondazione Pistoletto nell’ex lanificio Trombetta a Biella. Un “non luogo” per l’arte contemporanea, Progetto Arte mira all’interazione tra prodotto artistico e tessuto sociale, aprendosi a una molteplicità di scambi e relazioni con strutture esterne. “Sulla soglia di un nuovo millennio penso all’arte come progetto di avvicinamento e congiunzione di tutto ciò che è reciso e spinto verso distanze contrapposte, e penso che essa debba ritrovare la sua compresenza universale”, spiega Pistoletto.
C’è poi il caso notissimo del Museo Burri a Città di Castello, distribuito tra Palazzo Albizzini e gli ex essiccatoi di tabacco. Se nel primo, che accoglie le opere precedenti agli anni Ottanta, sacchi, legni, ferri, cretti e plastiche dialogano crudemente con l’elegante impianto gotico del Palazzo, nell’ex struttura industriale albergano esclusivamente quadri che, appesi a pannelli bianchi, sfuggono il confronto diretto.
Menzioniamo, tra gli esempi di musei ospitati in dimore storiche, solo Torino e Napoli. Il Castello di Rivoli, lo straordinario non finito di Filippo Juvarra, è restaurato nell’84 dall’architetto Andrea Bruno: ne preserva il carattere in fieri intervenendo sulla parte strutturale con linguaggio moderno dissonante, esente da storicistiche tentazioni. La decorazione delle sale asseconda l’andamento in progress dell’edificio: assente nelle ultime, è incalzante, quasi incombente nelle prime. L’impatto con le opere contemporanee è sorprendente, sin dalla mostra inaugurale “Ouverture”. “Olivestone” di Joseph Beuys, giganteschi massi di pietra sbozzati, continuamente alimentati da olio di oliva, poggiano pesantemente sul pavimento di un ambiente finemente decorato a grottesche, mentre i fuochi di Kounellis circuitano la stanza contigua, contrastando la spinta centripeta di un pozzo. Le colossali “persone nere” di Pistoletto occupano invece la sala di Bacco e Arianna, articolata in nicchie con affreschi e stucchi, l’unica con il pavimento originale. Se le piramidi sbilenche di LeWitt vincono assialità e allineamenti, uno dei lavori più suggestivi è, nella sala “cinese”, carica di affreschi, stucchi, legni dipinti a trompe l’oeil, la “Cabanne eclateé” di Buren. Un cubo a strisce bianche e gialle al centro dello spazio esplode proiettando porzioni triangolari sull’involucro circostante. Il Salone dei Camuccini del Museo di Capodimonte a Napoli, un’austera aula rettangolare caratterizzata da una volta a botte e da un vistoso pavimento a scacchiera di marmi bianchi, rossi e verdi ospita invece la serie di mostre curata dagli Incontri Internazionali d’Arte. Un angusto e impraticabile corridoio separa tre pareti fittizie da quelle vere dove sono appese opere dei Camuccini e di altri protagonisti del ’600 e ’700 napoletano. Apre la sequenza Mario Merz, la cui “Onda d’urto” evoca la struttura dell’ambiente ospitante. Il centro è percorso da una sorta di muro gradonato costituito da pile di giornali alla cui sommità si trovano “Il Mattino” e “Il Giornale di Napoli” del giorno dell’inaugurazione. Su questa spina, la sequenza dei numeri di Fibonacci introduce “il tempo come presenza ossessiva e totale”, contraddicendo la rigidità dei blocchi. Lastre di vetro, ancorate a terra a spezzoni di pietra lavica del Vesuvio, separano le singole pile, mentre l’anomalo edificio è sormontato da una volta aperta delineata da tondini di ferro. “Modus Operandi Cancellato, Rovesciato” di Joseph Kosuth e “Signore e Signori…” di Giulio Paolini eleggono la volta come sede d’intervento mentre il wall drawing “Forme di righe in bianco e nero” di Sol LeWitt campisce le tre pareti. Traendo spunto dalla scacchiera del pavimento, da cui assume la dimensione delle righe, LeWitt ne contraddice la regolarità e monodirezionalità prospettica: orientate in tutte le direzioni, le fasce delimitano forme geometriche libere e irregolari. L’ambiente risulta così avvolto da una struttura continua, di forte impatto visivo e altamente disorientante, “una maglia catastrofica ma non caotica”. Kounellis occupa il pavimento con decine e decine di otri, di varie dimensioni e varie epoche, reperiti nel corso di sopralluoghi effettuati nella campagna campana. Attraverso questi oggetti della cultura popolare e contadina aggiorna l’iconografia del Cristo morto la cui ferita nel costato è evocata dal sangue raccolto in un solo otre. Unico a rivelare la vera natura del luogo come sede espositiva all’interno di un museo di arte antica è “Indizi. Opera in situ” di Buren. Lo spunto iniziale è, come per LeWitt, la griglia del pavimento che, invertendo il rapporto tra pieno e vuoto, Buren tratteggia sulle pareti. In tale involucro fittizio apre, ad altezza d’uomo, buchi quadrati che, a mo’ di canocchiali, puntano particolari delle opere collocate sulle pareti vere o, in corrispondenza delle finestre, sul giardino del museo.
“Quando si parla di Sinistra si parla dell’attività delle Kunsthalle che hanno svolto un ruolo incisivo in un periodo difficile dell’Europa e hanno offerto un territorio espositivo aperto al dialogo tra gli artisti, contribuendo così alla loro formalizzazione. Quando si parla di Sinistra si parla di una Sinistra socialdemocratica, nata da una borghesia centrale”. Così Kounellis plaude all’attività svolta dalle Kunsthalle in Europa. Come negli spazi anomali, nelle Kunsthalle svizzere, belghe, olandesi e tedesche, gli artisti della sua generazione, spesso negletti nei loro paesi, hanno l’occasione di mostrare il loro lavoro e confrontarlo con quello dei loro coetanei di altri paesi. Le Kunsthalle risiedono spesso in dimore storiche rimaneggiate nel tempo. La nuova ala della Kunsthalle di Amburgo, ad esempio, opera discutibilissima di Oswald Mathias Ungers, s’innesta sui due blocchi preesistenti, quello ottocentesco e quello successivo al primo conflitto mondiale. Ungers si è ispirato a Schinkel per l’algido e simmetrico cubo bianco e, per la corte quadrata al centro della croce greca, nientedimeno che allo Scamozzi! Invitato a esporre, Richard Serra riedita Splashing, l’opera realizzata la prima volta nel ’68 nella grande warehouse di Leo Castelli a New York. Con un impeto degno di Pollock alle prese con il dripping, Serra cola piombo fuso nell’interstizio tra pavimento e parete in modo che il materiale, raffreddandosi, faccia presa con l’architettura. “La scultura cambia lo spazio. Quando la scultura è stata istallata, lo spazio sarà compreso come funzione della scultura”: questo l’intento. Ad Amburgo ripete l’operazione cinque volte: nelle prime quattro rimuove il piombo e lo dispone, in file parallele, sul pavimento, per lasciarlo invece, nell’ultima, in situ. Dan Graham mette a diposizione Videopavilion per proiettare i video degli artisti, mentre Anthro/Socio di Bruce Nauman proietta sulle pareti di una stanza buia la testa di un uomo ruotata in varie posizione che grida “Eat Me”, “Hurt Me” “Feed Me” “Help Me”. Jenny Holzer opta per il soffitto della scala che collega la nuova ala con quella ottocentesca. Un tabellone elettronico fa scorrere oltre 1000 Truisms, organizzati in ordine alfabetico: il movimento delle parole asseconda il dinamismo della scala.
La Kunsthalle di Berna, nota per le mostre personali dei protagonisti dell’arte degli anni Sessanta e per quelle tematiche quali When Attitudes Become Form curata da Harald Szeemann nel ’69, apre nel 1918 con l’intento di organizzare esclusivamente mostre temporanee di arte contemporanea. La nuova Kunsthalle di Krems, invece, la più grande dell’Austria, sceglie come sede una ex manifattura di tabacco: a due piani, consiste di un edificio angolare che abbraccia un ampio cortile delimitato dal muro di un carcere. Il vincitore del concorso a inviti, Adolf Krischanitz, opera con discrezione: lascia inalterato l’esterno, distingue visivamente le integrazioni, costruisce nel cortile un parallelepipedo collegato alla fabbrica da un corridoio e da una rampa. Su un sistema di rampe a più livelli si basa anche il progetto di Rem Koolhaas per la Kunsthalle di Rotterdam, crocevia fra la strada a traffico veloce e il parco: un edificio nuovo, moderno, formalmente semplice ma funzionalmente complesso e sofisticato.
Se dunque le soluzioni architettoniche per Kunsthalle e Musei spaziano dalla progettazione ex novo all’innesto di nuovi corpi in strutture preesistenti, come nei casi straordinari del Jewish Museum a Berlino e del Victoria and Albert Museum di Londra, opere di Daniel Libeskind, del British Museum di Norman Foster, per non parlare della piramide di I.M.Pei al Louvre, le Kunsthalle di Klagenfurt e di Dresda affacciano una novità: i progettisti sono infatti artisti. Nel primo caso, l’editore Helmut Ritter affida il progetto a Franz Erhard Walther, il cui lavoro si fonda sul rapporto corpo-luogo. L’edificio ha una sobrietà degna di Adolf Loos: asole di luce, incavi e sporgenze animano il cubo bianco, ne diversificano i prospetti, rendono leggibili le funzioni interne. Le asole di luce, in particolare, diversamente posizionate su ogni prospetto, creano un ritmo compositivo di eco neoplastica. A Dresda, invece, i collezionisti Hoffmann di Colonia affidano l’incarico a Frank Stella. Aduso a collaborare con architetti, quali Richard Meier, Stella ipotizza una serie di padiglioni dislocati in un parco urbano per integrare attività culturali e ricreative.

il salto di scala

Abbiamo accennato alla differenza rivendicata da Judd e LeWitt tra minimalismo e funzionalismo. Dan Graham non è affatto d’accordo: “L’architettura funzionalista e l’arte minimalista hanno in comune la fede sotterranea nella nozione kantiana di forma artistica come ‘cosa in sé’ dal punto di vista percettivo/mentale… L’arte minimalista e l’architettura post-Bauhaus si confrontano anche nel loro astratto materialismo e nella metodologia formalmente riduttiva. …Tanto l’arte minimalista quanto l’architettura funzionalista negano i significati connotativi e sociali e il contesto in cui si trovano altra arte e architettura. L’arte minimal e concettuale, contrariamente all’approccio teorico di sinistra, e come l’International Style, rappresentano solo se stesse, come linguaggio strutturalmente auto-referenziale. Esso ha soppresso deliberatamente sia le relazioni interne (illusionistiche) sia quelle esterne (rappresentative) per raggiungere un grado zero di significazione.” Così, nello sferzante intervento Art in Relation to Architecture/Architecture in Relation to Art, Graham, nell’accomunare le due poetiche per la loro asettica autoreferenzialità, le scruta da una angolazione politica e sociale prima ancora che estetica. Se, a dispetto di una presunta neutralità e trasparenza, gli edifici International Style funzionano “ideologicamente come base neutrale e obiettiva per il capitalismo americano d’esportazione”, gli oggetti tridimensionali non sono da meno: asettici, inutili, distanti da ogni contesto. Come Graham individua l’alternativa architettonica in Robert Venturi, così i padiglioni che licenzia a partire dal ’78 attribuiscono una funzione agli oggetti specifici minimalisti. “Nel rifiutare il riduzionismo e l’utopia dell’architettura modernista, Robert Venturi e i suoi collaboratori propongono una architettura che accetta le condizioni attuali, le realtà sociali, e la situazione economica data… Un edificio di Venturi e Rauch si riferisce contemporaneamente al gusto popolare e a codici specialistici. Dispiegando apertamente la sua funzione retorica e sociale e usando codici convenzionali contraddittori nello stesso edificio, Venturi opta per un’architettura realista (convenzionale) e multivalente, la cui struttura è convenzionale (semiotica) piuttosto che astratta o materialista e il cui fine è sostanzialmente comunicativo”. Anche se Graham guarda più al Venturi teorico di Complexity and Contradiction in Architecture che non al professionista, spesso in contraddizione con le sue stesse premesse. Un passo indietro, nell’itinerario di Graham.
Il primo impatto con lo spazio canonico della galleria ha luogo infatti in veste di direttore, nel ’64, della Daniels Gallery di New York, dove espone con equidistanza le tendenze del momento: il minimalismo e la pop art. Constata però subito come la legittimità dei circuiti espositivi sia affidata ai corollari pubblicitari e commerciali: “Dopo che mettemmo un po’ di inserzioni pubblicitarie, riuscimmo ad avere le prime recensioni. La mia idea era che il valore dell’opera dipendeva dalla sua riproduzione prima ancora che dall’acquisto”. Perché, medita allora Graham, non scavalcare la mediazione della galleria e mettere direttamente in contatto il lavoro con il suo mezzo di informazione e diffusione di massa? Homes for America del ’66, la prima opera come artista, è infatti un articolo pubblicato su Arts Magazine. È pilota: non solo giudica superato lo spazio espositivo canonico – esempio seguito presto da concettuali, artisti della land art e della mail art – ma indica che il lavoro è in funzione del nuovo contesto, precario e temporaneo. “Mentre l’arte in galleria si definisce per il suo carattere ‘atemporale’, le riviste presuppongono una nozione di tempo presente, che vale in quanto è attuale”, conferma Graham. Non solo. Il soggetto dell’opera sono fotografie, da lui stesso scattate, di case suburbane, icone del landscape americano, architetture povere, senza qualità, in serie, antitesi del pezzo unico, del capolavoro consacrato. Se in galleria Graham espone con imparzialità protagonisti della pop art e del minimalismo, Homes for America segue la stessa metodologia: applica a un’immagine popolare e “americana” quale la casa suburbana la struttura auroreferenziale della griglia e l’astrazione dei processi combinatori. Come nelle ipotesi di Venturi, “si riferisce contemporaneamente al gusto popolare e a codici specialistici”. Se la casa suburbana è qui solo un’immagine attraverso la quale si esprime l’astensionismo concettuale di Graham, le performance, cui si dedica nei dieci anni successivi, ripongono al centro le figure dell’artista e dello spettatore. “Nell’introdurre la mia soggettività e nel dare il primato al processo percettivo dello spettatore, le performance abbandonavano l’ermetismo e l’anonimato concettuale. Le performance utilizzavano come assunti alcune idee utopiche in ambito psico-sociologico, alternative all’establishment e al pensiero accademico. La speranza era che l’(inter) personale potesse ri-politicizzare il corpo politico. La psicologia radicale, l’etologia, gli stati di coscienza alterati dalle tecniche di meditazione e dal femminismo crearono nuovi modelli di comportamento condivisi da artisti come pure dalla cosiddetta ‘contro cultura’”, spiega a proposito dell’impegno di quegli anni. Rifiutate dai circuiti ufficiali, performance e video inaugurano spazi alternativi, spesso vecchi edifici industriali, perlopiù a Soho. The Kitchen, Apple, 98 Green Street e 112 Green Street sono spazi liberi, interdisciplinari, autogestiti.
Quando, nel ’78, Graham torna alla casa suburbana, essa non è più mera immagine, ma realtà architettonica da affrontare con la consapevolezza acquistata nella stagione delle performance. C’è però un episodio su cui non si può sorvolare: nel 1976, in occasione della mostra Ambiente/Arte curata da Germano Celant nell’ambito della Biennale di Venezia, Graham presenta Public Space/Two Aud Snces. Attraverso un setto trasparente divide l’ambiente assegnatoli in due parti, una delle quali culmina con uno specchio. Identificandosi totalmente con lo spazio a disposizione, l’opera non è più da contemplare ma da esperire: “Lo spettatore diventa così socialmente e psicologicamente più consapevole, di se stesso come corpo, come soggetto che percepisce in relazione a un gruppo. Questo è l’antitesi della perdita di sé che si verifica quando lo spettatore guarda un lavoro d’arte convenzionale.” La coscienza acquisita con le performance è ora sondata in uno spazio architettonico dato. Alteration of a Suburban House del ’78 è già un progetto, anche se mai realizzato. Prevede la sostituzione della facciata di una casa suburbana con una parete-finestra trasparente e nella collocazione, parallelamente a essa e a dividere la casa in due, di una superficie riflettente. Nel riprendere sostanzialmente i materiali dell’opera precedente e la loro disposizione spaziale, Graham mette sotto accusa la privacy della casa suburbana. “Il concetto di pubblico contrapposto a quello di privato può dipendere da convenzioni architettoniche. Per convenzione sociale una finestra media tra spazio privato (interno) e spazio pubblico (esterno). Una divisione architettonica, la casa, separa la persona privata da quella pubblica e sanziona determinati tipi di comportamento per ciascuna di esse”. Abbattendo la facciata per far posto a una grande finestra-vetrina, Graham rompe l’isolamento e pone lo spazio privato alla mercé di quello pubblico. Chi passa davanti alla casa può ora violarne l’intimità con lo sguardo ma in quel momento non può sfuggire alla sua immagine mentre guarda. Nello specchio si riflette ancora, come in un “tabellone metaforico che rappresenti una scena non illusionistica”, il paesaggio circostante.
I parametri progettuali per Two Adjacent Pavilions, i primi padiglioni realizzati da Graham nell’82 in occasione di Documenta 7 a Kassel, sono dunque stabiliti. Nel coniugare le proprietà del vetro e dello specchio, due cubi identici sono rivestiti dalla stessa percentuale di vetro trasparente/riflettente. Poiché sono diversi nel soffitto, trasparente il primo, impermeabile alla luce l’altro, durante il giorno, se il padiglione con il tetto opaco impedisce alla luce di penetrare, le pareti esterne sono più riflettenti che trasparenti mentre nell’altro, per condizioni luminose opposte, è possibile raggiungere con lo sguardo l’interno. Diversamente orientati, i due prismi sono immersi in una natura selvaggia e boschiva, lungo le sponde del fiume Kleine Fulga. Sono raggiungibili attraverso due percorsi: dal basso, lungo un sentiero che, inerpicandosi, approda al Fredericianum e, dall’alto, lungo una ripida discesa. Nessuna visione frontale, dunque, nessuna direttrice prospettica, ma un approccio di scorcio, volumetrico e tridimensionale. Come non pensare al primo impatto con la Ville Savoye di Le Corbusier, splendido aggiornamento dell’approccio al Partenone dai Propilei?
Ma i riferimenti storici indicati da Graham risalgono ben più indietro nel tempo. “I padiglioni gemelli sono spazi architettonicamente funzionali, utilizzabili come ripari provvisori all’aperto, nella tradizione arcadica. Un ‘genere’ questo che comincia dopo l’Illuminismo, con il concetto di ‘capanna rustica elementare’ formulato per la prima volta da Marc-Antoine Laugier”, il teorico e urbanista del XVIII secolo, che, contro il degrado urbano, propone il ritorno alla natura incontaminata.
Incalza Graham: “I miei padiglioni sono disposti, rispetto al grande palazzo federiciano, in modo analogo a quello in cui i piccoli padiglioni venivano collocati rispetto al palazzo centrale sede dell’apparato burocratico nel XVII secolo”. Il riferimento è al palazzo di Nymphenburg a Monaco, concepito nel 1664 come un padiglione da giardino, su modello italiano, cuore di un impianto assolutamente simmetrico che allarga le sue ali verso un giardino altrettanto classico. Di contro, nella zona selvaggia e boschiva, si ergono tre padiglioni, capricciosi e bizzarri, collegati al nucleo centrale da direttrici diagonali. Graham pensa presumibilmente ad Amalienburg, il casino di caccia progettato da François de Cuvilliés, con la stupefacente Spiegelsaal a pianta decagonale. In contrasto con l’austero assetto esterno, con la simmetria dell’impianto, l’interno è completamente ricoperto da un profluvio di specchi e decorazioni d’argento; quattro finestre, orientate verso i quattro punti cardinali aprono ad altrettanti sentieri verso il bosco. Se esse consentono dall’interno la visione diretta della natura esterna, gli specchi, che a queste si alternano, riflettono contemporaneamente la natura vera e quella artificiale, mentre il sole, colpendo le decorazioni, trasforma alchemicamente l’argento in oro.
Graham ripropone dunque a Kassel la tipologia, la dimensione, l’orientamento e il rapporto con la natura di quei padiglioni, ma ne aggiorna totalmente il linguaggio, scongiurando soluzioni vernacolari e anacronistiche: assume il principio della permeabilità alla natura e della sua moltiplicazione infinita attraverso gli specchi, ma rifugge orpelli e decorazioni affidando quegli effetti esclusivamente all’involucro trasparente/riflettente. La soluzione è moderna per eccellenza; Graham indica del resto come precedenti “il padiglione temporaneo pensato da de Stijl o dagli architetti moderni per le esposizioni”, come quello realizzato da Rietveld nel ’54 per il parco di scultura del Museo Kroller-Muller a Otterlo, e “le attuali pensiline per gli autobus delle linee urbane e suburbane”. L’adozione del lessico moderno, però, è in Graham tutt’altro che pedissequa: la scala umana dei padiglioni costituisce il suo contributo alla critica mossa da artisti e architetti sul volgere degli anni Settanta alla sclerosi e alla protervia dell’International Style. Mentre il rendere praticabili e fruibili le strutture elementari rappresenta il superamento dell’autoreferenzialità minimalista.
Graham interviene anche nel cuore della metropoli. Solo due esempi. Video View of Suburbia in an Urban Atrium è un video che proietta l’immagine di una casa suburbana nell’atrio del Citicorp Building di New York. Se i padiglioni a Kassel “situano i materiali e le forme della città moderna in un contesto naturale”, l’opera in questione compie il percorso inverso, trasferendo il sogno americano dei suburbi nella natura artificiale degli atri delle grandi corporazioni industriali. Two-Way Mirror Cylinder Inside Cube and Video Salon on the Rooftop of the Dia Center for the Arts, invece, è insediato sul tetto della Dia Center for the Arts, fol vecchio edificio industriale di Chelsea adibito a ospitare lavori di grandi dimensioni. Aperta nell’87, questa sede si aggiunge a quella di Soho che ospita in permanenza The New York Earth Room di Walter De Maria e a quella di prossima apertura lungo l’Hudson River a Beacon, New York, per la collezione permanente. Il padiglione di Graham è un cilindro inscritto in un cubo, di vetro alternativamente trasparente e riflettente a seconda della luce. Il pubblico in continuo movimento, rispecchiandosi all’interno e all’esterno della struttura, la anima e dinamizza, proponendosi come il vero soggetto. Coniugare superfici piane e curve, poi, consente la dialettica per sovrapposizione di immagini prospettiche e anamorfiche. Non solo. Se il cubo evoca la griglia urbana, il cilindro ha la stessa dimensione del serbatoio d’acqua sovrastante. Si tratta di un’icona del paesaggio industriale newyorkese, immortalata agli albori del secolo dai fotografi “secessionisti” e negli anni Venti dal gruppo dei pittori precisioniori. Come Two Adjacent Pavilions nei confronti dei padiglioni settecenteschi, Graham la attualizza trasferendola dalla virtualità della pittura alla realtà dello spazio.
Ricordiamo che, in occasione della stessa Documenta 7, nello stesso parco selvaggio e boschivo a cavallo del fiume Kleine Fulga, Mario Merz appoggia Igloo di pietra, una semisfera di 4 metri e mezzo per 2 costruita con pezzi di pietra irregolari. Al rapporto dissonante stabilito da Graham tra i padiglioni stereometrici e la natura, Merz contrappone la relazione armonica tra quest’ultima e una “forma sintetica e naturale”, rotonda come la terra, eretta con materiali naturali reperiti sul luogo.

“Il precedente della Public Art è il monumento. Quando prova a sfuggire alla sua funzione di monumento, la Public Art deve stare attenta: se assomiglia a una casa o a un arredo, si avvicina all’architettura. Per mantenere le caratteristiche di Public Art, può conservare la figura che incarna il monumento, nella quale si deve però poter entrare, sedersi. Il monumento è ridotto a misura, è abbattuto, è buttato a terra, è reso orizzontale”. Se i padiglioni di Graham adottano la forma e i materiali degli oggetti minimalisti e dell’architettura International Style, rendendo funzionali i primi e atterrando la protervia dimensionale della seconda, Vito Acconci compie un’operazione analoga nei confronti della scultura Pop: ne adotta il lessico ordinario, banale, scanzonato ma ne abbatte la scala rendendola agibile. Anche se, come vedremo, Acconci si considera più architetto che artista, la peculiarità della Public Art consiste proprio nel non volersi sostituire né all’architettura né all’urbanistica ma di intervenire nel contesto da esse generato per sovvertirne e dissacrarne le coordinate spaziali e temporali, per vincere abitudini consolidate, per stimolare il pubblico a vivere lo spazio in modo attivo e partecipe. “La Public Art deve stringersi dentro, introdursi sotto, sovrapporsi a ciò che già esiste nella città. Il suo comportamento consiste nell’eseguire operazioni su ambienti già costruiti: aggiunge al verticale, sottrae all’orizzontale, moltiplica e divide la rete di linee che li connette. Queste operazioni sono superflue, replicano quello che c’è già e lo fanno proliferare come una malattia“. E, ancora: “Il public artist è chiamato a occuparsi non degli edifici ma dei marciapiedi, non delle strade ma delle panchine ai lati della strada, non della città ma dei ponti fra città e città. La Public Art funziona come una nota a margine: può soltanto commentare o contraddire il corpo principale del testo della cultura”.Come Graham con i padiglioni, Acconci approda alla Public Art dopo una stagione dedita a performance ormai leggendarie per la loro carica eretica nei confronti di se stesso e degli altri: si strappa i peli, si prende a morsi, si riempie gli occhi di sapone, si masturba non visto nella galleria Sonnabend di New York, oppure pedina estranei origliando i loro discorsi, confessa i suoi segreti ai primi che incontra, cerca di aprire a forza gli occhi di una donna. “In un mondo di contemplazione, la performance introduce l’azione, in un mondo di rappresentazione, la realtà; in un mondo della mente, la carne; in un mondo di universali, la vulnerabilità degli universali, la precarietà”. Quest’ultima, in particolare, guiderà il passo successivo nello spazio, prima con l’arredamento, “a metà strada tra il vestiario e l’architettura”. Se Head Storage è una testa con tanto di orecchie, che accoglie scaffali, ante e sportelli, Garden Chair ha come seduta un pneumatico e come schienale un blocco di cemento ricoperto di vegetazione. Convertible Clam Shelter sono invece cinque molluschi, ciascuno della dimensione di una piccola stanza: girevoli su cardini, offrono cinque diverse possibilità abitative. Emettono inoltre il suono delle onde dell’oceano mescolato a quello proveniente da sorgenti convenzionali. AdjustableWall Bra è infine un reggiseno diversamente “indossato” dalla parete a seconda della posizione e dell’inclinazione delle due coppe. Anche qui, due fonti sonore emettono il battito palpitante del respiro e musica “ready-made”.
Bad Dream House e House of Cars registrano un passaggio ulteriore, dall’arredamento alla casa. È lo scompiglio spaziale, funzionale, esistenziale. Basta con gli involucri ortogonali e inerti, con la separazione tra interno ed esterno, con le disposizioni spaziali canoniche e ripetitive, con le abitudini sociali consolidate e benpensanti. “Se la casa vi fa sentire comodi, se vi ci potete rannicchiare, allora siete persi nel passato e nella stabilità, ma se la casa vi mette agitazione, è il momento di guardare il futuro e cambiare”, avverte. E mantiene la promessa. In Bad Dream House tre case si scontrano, una capovolta, le altre due adagiate su un fianco o sulla falda del tetto; pavimento e soffitto si scambiano i ruoli e la casa è fruibile a 360°. House of Cars, invece, è una sorta di habitat costruito con sei macchine usate. Due macchine per appartamento: si cammina nella parte centrale su una griglia metallica, per salire poi nell’unità superiore e scendere in quella inferiore. Ogni appartamento è fornito infatti di tre unità: cucina, bagno e camera da letto.
Ma il vulcanico Acconci non si ferma qui: dalla fine degli anni Ottanta, infatti, costituisce con un gruppo di architetti l’Acconci Studio per dedicarsi alla progettazione di spazi pubblici, strade e piazze, parchi e giardini, nodi viari e percorsi di circolazione, oltre che a scuole, musei, centri comunitari. “Non consideriamo arte quello che facciamo, ma architettura, architettura del paesaggio, design industriale, progettazione urbana. Probabilmente non riusciremo a cambiare il mondo, però possiamo cambiare le cose nel mondo, complicarle, moltiplicarne le funzioni. Tentiamo di progettare spazi che rovescino il mondo, che lo rivoltino come un guanto, che liberino la gente: cerchiamo, insomma, di creare espedienti e strumenti che le persone possano usare per fare ciò che non dovrebbero fare e per andare dove non dovrebbero andare”. La rottura delle convenzioni applicata prima al corpo e poi alla casa si estende ora alla città. “Il lavoro è ancora per il corpo umano, solo che ora lavoriamo con il contesto in cui quel corpo è inserito. Ciò che è rimasto costante nel mio lavoro è la collocazione del corpo all’interno di una situazione, piuttosto che all’esterno: non c’è la distanza per vedere, è necessario ricorrere ad altri sensi, bisogna toccare, ascoltare, annusare, assaporare. Il mondo è a distanza ravvicinata, non si ha mai la sicurezza del panorama”. Dichiarazione preziosa per chiunque si avvicini al tavolo da disegno. Tantissimi gli esempi possibili. Nel ’93, se replica la sala centrale del MAK di Vienna e la inclina a partire da un angolo di quella originaria in modo che “il museo caduto diventi paesaggio”, lavora con Steven Holl a Storefront Renovation, la ristrutturazione di uno spazio espositivo a New York. La facciata è pensata come successione di pannelli ruotanti intorno a perni verticali e orizzontali. A seconda dell’angolo di rotazione, i pannelli possono fungere da finestre, tavoli e panche oppure consentire l’osmosi tra la strada e la galleria. Se, nel progetto del cortile di una scuola elementare nel Bronx, i muri circostanti sono replicati, ruotati e buttati a terra in modo che i bambini possano calpestarli e giocarci sopra, mentre le finestre sono utilizzate come panche e contenitori di piante, nella proposta per una pensilina vicino alla scuola elementare di Longview a Phoenix, Acconci fa esplodere la scuola disseminandone i frammenti sul terreno che, inclinati o rovesciati, fungono da riparo per il sole. Nel 1981, invitato a pensare un collegamento tra due centri per convegni a S. Francisco, decide di riempire lo spazio con il tempo. Sulla facciata di ognuno dei due edifici dispone sei orologi le cui tre lancette, adagiate sul marciapiede, sullo spartitraffico e dall’altra sponda della strada, la “attraversano”. Otto anni dopo, riadotta l’idea dell’orologio per l’Equitable Building Plaza a Chicago. Un orologio di venti metri di diametro è sovrapposto al pavimento della piazza: i numeri, di cemento, sono sollevati e fungono da sedili mentre le lancette, d’acciaio, si muovono non consentendo di sostare nello stesso posto più di 59 minuti. Ci sono tantissimi altri progetti, dal parco per skateboard ad Avignone, vicino a una vecchia fabbrica, dove, nella proiezione dell’interno all’esterno, le colonne si mescolano con il pavimento, il pavimento con le pareti, i muri si gonfiano, si sollevano e abbassano per creare piste a diverse altezze, al progetto per l’Expò di Siviglia del ’92, una sfera gigantesca divisa a metà, una sopra e una sotto terra, collegate da rampe a spirale percorse da spettatori che si riflettono negli specchi che foderano le superfici interne.

ambienti spaziali

I primi Concetti spaziali di Lucio Fontana che crivellano la superficie di buchi sono del ’49, lo stesso anno in cui l’artista argentino, definitivamente in Italia da due anni, espone alla Galleria del Naviglio di Milano Ambiente spaziale con forme spaziali e illuminazione a luce nera. Non si tratta del mero superamento dello schermo plastico rappresentativo. Il tono del “Manifiesto Blanco” redatto a Buenos Aires nel ’46, è infatti messianico: “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. È necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo”. L’arte moderna si trova in un momento di transizione nel quale si esige la rottura con l’arte antecedente per dar luogo a nuove concezioni. Questo stato di cose, visto attraverso una sintesi, è il passaggio dall’astrattismo al dinamismo… L’uomo è esausto di forme pittoriche e scultoree… L’era artistica dei colori e delle forme paralitiche è sorpassata. L’estetica del movimento organico rimpiazza l’estetica vuota delle forme fisse. Abbandoniamo la pratica delle forme d’arte conosciute, abbordiamo lo sviluppo di un’arte basata sull’unità del tempo e dello spazio”. L’ossessione del dinamismo come superamento della staticità della materia e dello spazio guida del resto il percorso di Fontana sin dal ’31-’32, quando aderisce al gruppo degli astrattisti de Il Milione. Abrogando nel buio ogni confine, l’Ambiente spaziale genera una vertigine di vuoto adimensionale, animato da forme luminose sospese. Traduce così l’inerzia della spazio scatolare e simmetrico in esperienza dinamica e polidirezionata. E la scultura-luce, finalmente libera da ancoraggi, dunque spaziale, diviene protagonista di un’architettura scevra da involucri. La relazione arte-architettura sta da sempre a cuore a Fontana. Collabora con Luciano Baldessari, Marcello Nizzoli, Giancarlo Palanchi ed Edoardo Persico per la Sala della Vittoria nella Triennale del ’36 e con Terragni per il Monumento ai Caduti di Erba. Se il movimento spazialista si fonda nello studio BBPR di Milano, Fontana collabora nel ’47 con Marco Zanuso e Roberto Menghi scolpendo i fregi del Palazzo di via Senato a Milano, per non parlare del bassorilievo nel cinema Arlecchino o di altri interventi in interni. È però consapevole del limite di tali collaborazioni, della responsabilità degli architetti nel ridurre l’arte a mera decorazione. “Della crisi dell’arte come applicazione in funzione decorativa sono responsabili gli architetti, solo occupati in un problema funzionale e non umano, architettura luce, architettura plastica sono i nuovi problemi dell’arte moderna. L’architetto creerà la nuova architettura solo abbinato con artisti che abbiano capito a che punto stiamo con l’architettura. Gli artisti aspettano che alla rivoluzione dell’architettura provocata dal cemento sia abbinata la funzione d’arte spaziale dell’artista contemporaneo. La fusione di artisti e architetti nel problema architettura spazio, architettura luce, porterà al Partenone dell’arte contemporanea, architettura spaziale”.
Se il “Manifesto tecnico” del ’51 conclude: “Si va formando una nuova estetica, forme luminose attraverso gli spazi”, In occasione della Triennale di Milano dello stesso anno Fontana progetta lo strepitoso Ambiente spaziale al neon: 350 metri di neon formano una matassa di luce sospesa nello spazio; il suo andamento libero e ribelle contesta la rigida simmetria dello scalone d’accesso.
Ricordiamo altri “Ambienti spaziali” progettati con regolarità da Fontana negli anni Sessanta. Fonti di energia, in occasione di Italia 61, consiste di ben quattro chilometri di tubi al neon verde e blu che formano un basso controsoffitto di sette metri di spessore. Nero Utopie, in occasione della Triennale del ’64, invece, abroga di nuovo lo spazio nel buio per animare però il vuoto con una traiettoria laterale di buchi, illuminati da neon verde, che guida il visitatore dall’ingresso all’uscita. Agli antipodi, L’Ambiente ovale bianco, ideato in occasione della Biennale di Venezia del ’66 in collaborazione con Carlo Scarpa, non risucchia lo spazio nel buio ma ne stravolge l’assetto: entro un involucro ovale si dispongono liberamente dei setti, sorta di nicchie ospitanti Attese bianche; esse disegnano un percorso a zig-zag dove l’uscita è diametralmente opposta all’entrata. Quando non inventa nuovi spazi, Fontana interviene su quelli esistenti con gli stessi criteri: movimento versus stasi, materiali tecnologicamente avanzati, aggressione di punti chiave come il soffitto e il pavimento. Il soffitto del cinema del Padiglione Breda per la Fiera di Milano del ’53 è crivellato di buchi; a quello dello stesso cinema, ma l’anno successivo, aggiunge neon e macchie di vernice arancio-rosso-verde; quello del cinema del Padiglione Sidercomit nel ’53 presenta invece buchi e segmenti di neon a forma di V, quello del Padiglione italiano all’Expò di Montreal del ’67, infine, è a forma di vela. Quanto al pavimento, basti pensare a quello traforato dell’abitazione dell’architetto Ico Parisi a Como.

“Io non mi aspettavo, veramente, questo fiorire, questa evoluzione così rapida e anche così omogenea di tutta una gioventù che è scatenata verso le ricerche nuove. E, allora, un uomo anziano, un artista… resta come frastornato, quasi impotente e dice ‘ma io cosa faccio adesso?’ Poi un po’ mi rassegno perché dico beh, in fondo, è inutile la modestia, tu hai già fatto abbastanza, forse i giovani fanno quello che tu volevi fare, che non sei riuscito perché i tempi non erano maturi, li hai forse intuiti… un futuro c’è stato, proprio una trasformazione sulla fine del quadro, della pittura: l’arte portata in un fatto, ormai strutturale, ma non in senso costruttivo, strutturale in un senso filosofico. L’arte è andata su un concetto che io avevo sempre immaginato… Il Manifesto spazialista parla chiaro, dunque siamo quasi arrivati a quello che io aspiravo di fare”, confessa a Carla Lonzi nel ’67 sulle pagine di Autoritratto, la prima raccolta di interviste d’artista, dove Fontana, a un anno dalla morte, dialoga proprio con alcuni di quei giovani. Ci sono Getulio Alviani del Gruppo T, Enrico Castellani – di cui Fontana aveva già tenuto a battesimo nel ’59 la rivista Azimuth pubblicata con Piero Manzoni – Luciano Fabro, Jannis Kounellis e Giulio Paolini, prossimi protagonisti dell’Arte Povera e, ancora, Pino Pascali e Salvatore Scarpitta.
Nello stesso anno, Palazzo Trinci a Foligno ospita una mostra cruciale: Lo spazio dell’immagine. Invitati da critici del calibro di Argan, Bucarelli, Calvesi, Apollonio, Dorfles, Kultermann e Celant, diciannove artisti sono chiamati a realizzare un “ambiente plastico spaziale”. A fare gli onori di casa è naturalmente l’Ambiente nero di Fontana. Antitetica la soluzione di Enrico Castellani. Anziché abrogare lo spazio tridimensionale nel buio, Ambiente bianco lo dilata e smaterializza. “Quello che m’interessava era la sparizione della dimensione, far dimenticare la dimensione fisica”, spiega a Carla Lonzi. Tre superfici bianche, segnate da tracciati contraddittori e fuorvianti, sono collegate circolarmente da due superfici bianche angolari. “La tela tirata agli angoli del mio ambiente aveva la funzione di creare uno spazio il meno fisico possibile, il più smaterializzato. In un certo senso, con quegli angoli lì ci sono riuscito perché ci andavano a tastoni; non si rendevano conto della distanza e delle dimensioni”. L’opera di Castellani, allora, moltiplica e radicalizza la precarietà che i tracciati intermittenti in balia della luce determinano sulle singole superfici.
Gli altri invitati hanno interpretato variamente il tema: chi ha costruito nuovi spazi, chi ha commentato quelli a disposizione, chi li ha semplicemente occupati. I gruppi cinetico-visuali, come il Gruppo T e il Gruppo N, costituitisi rispettivamente nel ’59 e l’anno successivo, sono presenti in folta schiera. Ricordiamo After Structure di Gianni Colombo e Gabriele De Vecchi. Si tratta di un ambiente cubico le cui pareti e il cui soffitto sono coperti da un sistema regolare di linee rosse, verdi, blu. Un programma di flash che alterna gli stessi colori genera nell’osservatore delle “after images” che, sommate ai flash successivi, produce un senso di precarietà e disorientamento, “al di fuori di criteri prospettici, euclidei o proiettivi di interpretazione”. Nello stesso anno Colombo progetta Spazio elastico: fili elastici concretizzano quei tracciati luminosi che, in assenza di involucro, circoscrivono volumi di vuoto. Per effetto di congegni elettromeccanici, poi, quei fili si flettono e torcono. Dalla parete all’intero involucro allo spazio interno: questo il percorso di Colombo da Strutturazione pulsante del ’59, una parete in mattoni di polistirolo che, animata da un congegno elettromeccanico, si apre e chiude in differenti direzioni, alle Bariestesie, Topoestesie e Cacogoniometrie. Se gli Ambienti mettono in crisi la simmetria e l’ortogonalità della scatola muraria attraverso congegni meccanici, le serie successive fissano quelle vertigini in strutture stabili esperibili dallo spettatore. Così i gradini delle scale si inclinano per provocare, assieme alla perdita del baricentro, effetti di disequilibrio in avanti o all’indietro; così i pavimenti s’inclinano, come pure le colonne e gli archi che occupano lo spazio con percorsi labirintici.
In cubo di Luciano Fabro è un cubo di tela, antropometrico, progettato cioè sulle misure dell’artista che, per entrarvi, deve sollevarlo. All’interno ne controlla i limiti e, grazie alla luce che filtra attraverso la tela, è in contatto con l’esterno. Agli antipodi della concezione antropocentrica rinascimentale, l’uomo non è misura di tutte le cose, ma solo di quelle che può esperire direttamente. “Lo spazio non è un atto di ragione, ma un atto di senso”: la dichiarazione di Fabro trova conferma già nelle prime prove come Buco, chiaro omaggio a Fontana. Una lastra specchiante offre al centro una zona trasparente attraverso la quale mettere a fuoco la realtà prospiciente. “Non è un problema di forma. Un buco può essere trovato anche da un cieco che ignora la forma ma riesce a situarlo. Io l’esperienza non la faccio col quadro, la faccio vivendo, guardando le cose”. Se Fontana addita, con il buco, il taglio e l’ambiente spaziale, lo spazio infinito oltre la tela, Fabro vive e agisce già in quello spazio. Anche se utilizzerà il titolo Concetto spaziale, per Fabro il buco non è più un concetto, ma una realtà fisica, il limite del campo visivo.
Pino Pascali occupa il pavimento con 32 mq. di mare circa raccolto in contenitori quadrati, mentre il torinese Piero Gilardi offre una Prova e dimostrazione dei tappeti natura, con pezzi di natura fedelmente ricostruiti in polistirolo e adagiati a terra in varie posizioni. Anche Gino Marotta è attratto dalla natura artificiale: Naturale-Artificiale occupa infatti lo spazio con una selva di alberi di metacrilato, quasi a mimare un paesaggio di stalattiti. Il Tubo di Eliseo Mattiacci, infine, un lunghissimo e aggrovigliato serpente di alluminio giallo, impegna lo spazio rendendolo impraticabile.
L’appuntamento di Foligno, dunque, il primo a fare il punto sulle ricerche oltre il quadro, registra presenze significative ma anche inspiegabili assenze. Quella di Carla Accardi, ad esempio, che nel ’65 realizza Tenda con tre superfici di sicofoil sulle quali fluttuano segni erratici. Anche se gli intenti non sono prettamente ambientali: “Mi piace la tenda perché non l’ho inventata. La tenda è una cosa ovvia, l’ho pensata come estensione della pittura. Una tenda che non ha niente di solido, nessuna utilità, è veramente come un pensiero”. La ricerca di Accardi procede nel ’67 con Ambiente arancio: la ricostruzione di una spiaggia dove superfici di sicofoil illuminate da segni arancio, adagiate sulle pareti e sul pavimento, si coniugano con oggetti “ready-made” come il materassino e l’ombrellone.
L’assenza di Giuseppe Pinot Gallizio e di Yves Klein è dovuta forse alla loro scomparsa, rispettivamente nel 1964 e due anni prima. L’idea di pittura industriale è già oltre il quadro, nello spazio; non è da contemplare ma da indossare, non è da acquistare a caro prezzo, nei luoghi sacri dell’arte, ma a prezzo stracciato, a metraggio, per strada, nei grandi magazzini. Prodotta infatti in quantità industriale, non è merce rara ma inflazionata. L’attitudine di Pinot Gallizio nei confronti dell’industria è antitetico a quello, coevo, degli artisti programmatici e cinetici: non si tratta di applicare i procedimenti industriali all’arte ma di utilizzarli per desacralizzare la stessa, riducendola a poesia. Come spiega il Manifesto della pittura industriale: “Bisogna dominare la macchina e obbligarla al gesto unico, inutile, antieconomico, artistico, per creare una nuova società antieconomica ma poetica, magica, artistica”. Se i primi rotoli di pittura industriale sono esposti nel ’58 a Torino, la caverna dell’antimateria è realizzata l’anno successivo nella galleria Drouin di Parigi. Un intero ambiente è tappezzato di materia pittorica disintegrata, ribollente, in eruzione, dall’aroma resinoso. A differenza degli ambienti del Gruppo T, dinamizzati da congegni meccanici, Gallizio affida alla materia il fattore di destabilizzazione spazio-temporale. “Signori potenti e simmetrici, la dissimetria dilaga nei campi artistici e scientifici minando alle basi il vostro mondo simmetrico… Le ultime creazioni artistiche moderne vi hanno distrutto lo spazio… il tempo si è fermato e vi ha costretto a cambiare velocità… Inutile le vostre costruzioni ideali del Superuomo e del genio; inutili i vostri decori, le vostre immense costruzioni urbanistiche… Inutile e vano il vostro urbanesimo… Oggi l’anti-materia, l’anti-mondo fisico è trovato e tutta la vostra immensa dimora vi crolla sul dorso”, tuona il Manifesto. All’horror vacui di Gallizio, alla sua immersione viscerale nella materia fa da contraltare l’astensione spirituale di Yves Klein che nel ’58 espone nella stessa galleria di Parigi Il vuoto: un ambiente completamente bianco, impregnato dello “stato sensibile pittorico”. Un banco di prova per l’architettura dell’aria, concepita l’anno successivo con gli architetti Werner Runau e Claude Parent, una eco-architettura, potremmo dire, progettata con materiali naturali ed eterei.
Per un anno, invece, Mario Merz manca l’appuntamento. Il primo igloo, infatti, dedicato al generale Giap, è del ’68. Una semisfera ricoperta di pani di creta è circuita dalla nota sentenza del generale vietnamita, scritta con il neon: “Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza”. Pieno prima e trasparente poi, l’igloo è uno spazio reale e fruibile ma, più di questo, è una idea di spazio, assoluto e totale, dove gli opposti s’incontrano: il “mondo e la piccola casa”, il minore ingombro fisico e la maggiore superficie possibile, il fisico e il mentale, il radicamento e la sospensione, il primitivo e il sofisticato, il riparo e la permeabilità, l’opacità e la trasparenza, il dentro e il fuori, lo spazio e il tempo. Frutto dell’assemblaggio artigianale e in progress di materiali naturali come il vetro, il fango, la creta, la cera, il catrame, le fascine, l’igloo è nemico di ogni stasi: se la concezione di uno spazio che procede dall’interno verso l’esterno evoca la fervida lezione organica, la forma e la frammentarietà dell’involucro sono memori delle cupole geodetiche di Buckminster Fuller, mentre la precarietà e povertà dei rivestimenti anticipa le migliori soluzioni decostruzioniste.
“Lo spazio dell’immagine” trova il suo aggiornamento nella mostra “Ambiente/Arte” curata da Germano Celant nell’ambito della Biennale di Venezia del ’76. Il critico parte giustamente dalle avanguardie storiche perché “dal futurismo e con maggiore evidenza dal dadaismo a oggi, il significato e il valore del termine artistico è determinato dalla sua collocazione in uno specifico ambientale”. Tra le possibili declinazioni del termine ambiente – architettura, città, territorio – la mostra opta per la prima: “L’indagine è condotta sulle condizioni e le modalità d’interazione tra arte e ambiente interno, o viceversa. Si intende con quest’ultimo lo spazio limitato da sei piani che può essere definito come scatola muraria a scala umana. Il limite fisico su cui si basa la ricerca è dunque lo spazio racchiuso e limitato da piani e superfici murarie”. Escludendo l’arte che “adorna parzialmente le superfici e i volumi di uno spazio dato”, si considera solo quella che “assume la totalità spaziale dell’ambiente per strutturarla e caratterizzarla con una modificazione plastico-visuale”. Il testo di Celant rispecchia fortemente un’epoca storica socialmente e politicamente coinvolta. Denuncia infatti l’ostracismo dei “media e degli operatori del mondo dell’arte” che rendono l’arte ambientale “un fare arduo ed emarginato”. Ne sottolinea quindi il carattere eversivo, anti istituzionale: “L’assenza di ogni problematica situazionale e contestuale toglie all’artista ogni controllo del suo lavoro, in modo che questo, una volta uscito dalle sue mani, sia sottoposto soltanto alla gestione d’altri… Se ogni artista vincolasse il suo lavoro al contesto ambientale scelto, renderebbe difficile ogni manipolazione successiva… L’unità pratica di arte e ambiente dimostra la volontà di strappare la materia lavorata dall’artista alla distribuzione selvaggia e alla pratica incontrollata dello scambio”. Il percorso espositivo prende dunque l’abbrivio dal Futurismo, procede con il suprematismo e il costruttivismo, quindi con il neoplasticismo e razionalismo per concludere con la metafisica, dada e surrealismo. L’indagine è accuratissima, riproduce testi teorici e documenta ipotesi spaziali sia in accezione di cavità personale, introversa, come nel caso del Merzbau di Schwitters, sia come “sublimazione pubblica”, estroversa, in quello del Cafè Aubette di van Doesburg. Il dopoguerra inizia invece con la polarità Pollock-Fontana: “Se nel caso dell’artista americano si rimane però nell’intenzione, con Lucio Fontana, negli stessi anni, siamo alla costruzione reale di ambienti spaziali… Pollock non aveva dinnanzi alcuna tradizione di arte ambientale, Fontana può invece richiamarsi al futurismo nonché far ricorso alle istanze per uno spazio alternativo tipiche del razionalismo architettonico italiano”. Incontriamo artisti e vicende già note, da Pinot Gallizio a Yves Klein, dagli artisti programmati e cinetici a Sol LeWitt, da Daniel Buren a Mario Merz, da Carla Accardi a Dan Graham a Vito Acconci.
Inedita è invece la presenza degli artisti californiani dediti alla ricerca sugli ambienti percettivi. Lì, all’estremo limite tra Oriente e Occidente, dove la città è assente e la vita è “on the road”, il rapporto con lo spazio non può essere che temporaneo e precario. Niente spazi progettati, allora, statici o dinamici, quanto piuttosto ambienti rarefatti e smaterializzati, costruiti con la luce, i suoni e l’aria, che esistono nel momento in cui ne facciamo esperienza. Michael Asher utilizza aria pressurizzata per costruire muri la cui presenza è invisibile ma percepibile. Al Pomona College nel ’70, invece, il suo ambiente consiste di due stanze triangolari totalmente bianche e vuote cui è possibile accedere da una larga apertura quadrata aperta giorno e notte. I rumori e la luce vi penetrano in diretta, amplificati dalla struttura degli spazi. Quando Asher parla di “lavori di costruzione e di situazione”, ne sancisce l’osmosi con il contesto architettonico. L’ipotesi è confermata del resto dalle “sottrazioni”: dell’intonaco della galleria Toselli a Milano e di un muro divisorio nella galleria Copley di Los Angeles.
Robert Irwin e James Turrell sondano i limiti della percezione con esperienze estreme, come sostare immobili entro camere buie e aneconiche. Nel vuoto assoluto, gli unici rumori percepibili sono quelli provenienti dal corpo. Alle prese con lo spazio, Irwin erige con veli diafani e trasparenti, assimilabili al pulviscolo atmosferico, barriere invisibili, controsoffitti, passaggi e percorsi. Oppure delimita con nastro adesivo nero le zone su cui concentrare l’attenzione o addirittura, come a Venezia, sottrae una porzione di muro aprendo una finestra sul Canal Grande. I Projection Pieces di Turrell, che risalgono al ’67, sono invece forme di luce proiettate sulle pareti o preferibilmente negli angoli. Rettangoli e triangoli si mutano in volumi di luce galleggianti in uno spazio abrogato dal buio. Il passo successivo è dalla virtualità della luce alla realtà dell’architettura: con gli Shallow Space Constructions, prima, fessure aperte entro pareti divisorie fittizie da cui penetra luce fluorescente e con Structural Cuts, Skyspaces e Skylights, poi, dove finestre e lunette sono aperte direttamente nelle pareti o sul soffitto, consentendo l’ingresso della luce naturale e il suo dialogo con quella artificiale. Space-Division Constructions sono un’altra cosa ancora: aperture ricavate nella parete che, al primo impatto, sembrano quadri monocromi, aprono verso uno spazio incommensurabile abitato dalla luce. Maria Nordman, infine, e Bruce Nauman. La prima ricorre esclusivamente alla luce naturale. Il noto ambiente a Pico Boulevard a Santa Monica consiste di una stanza sopraelevata rispetto al livello stradale. L’interno è completamente nero e diversamente configurabile grazie a sei pannelli mobili su ruote. Se dalla porta leggermente aperta filtra la luce, la finestra su strada è, come nei padiglioni di Graham, di vetro trasparente riflettente: di giorno, chi è dentro può guardare fuori non visto e chi è fuori, macchine e passanti, specchiarsi senza vedere dentro. In altri ambienti – a Pasadena, Varese o Rivoli – la consapevolezza dello spazio interno è lenta e inquietante, affidata alla luce che penetra progressivamente da una piccola fessura. Gli ambienti di Nauman nascono dal suo lungo tirocinio sul corpo e sul rapporto tra questo e lo spazio; sono costruiti infatti a sua misura. Performance corridor del ’69, ad esempio, è stretto e ha le pareti di cartone. Una videocamera riprende lo spettatore che cammina mentre un monitor restituisce l’immagine in tempo reale. Gli ambienti successivi, da Green Light Corridor a Yellow Room Triangular sono angoscianti e claustrofobici: colori accecanti e forme ardue li rendono infatti intransitabili.
Ricordiamo infine, tra gli invitati ad Ambiente/Arte Walter De Maria, protagonista della Land Art. Espone Earth Room, presentata la prima volta nel ’68 nella galleria Friedrich di Monaco e ora in pianta stabile nella sede della Dia Foundation di New York. La dimensione dell’installazione varia con l’ambiente, con la quantità di terra che è capace di contenere.

la città come opera d’arte

Due ipotesi: l’opera come proposta di trasformazione urbana e la stessa come semplice occupazione urbana, in modo permanente – vedi monumento – o temporaneo, come nelle esposizioni. Ma il monumento può diventare ipotesi urbana, come nel capolavoro delle Fosse Ardeatine a Roma oppure l’arte, se ha la presunzione di farsi piano, fallisce, come a Gibellina.
Abbiamo detto di Vito Acconci, del passaggio dal monumento all’arte pubblica alle ipotesi architettoniche e urbanistiche, ironiche, provocatorie e dissacranti. Nel caso di Robert Irwin e Maria Nordman, invece, prevale la discrezione, l’economia dei mezzi, il coinvolgimento dello spettatore. Le proposte non mirano a sconvolgere e decostruire ma a vincere il torpore con cui affrontiamo la realtà che ci circonda. Irwin distingue quattro approcci alla città: quello che “domina il luogo”, incurante del destinatario; quello “che si adegua al luogo”, attento solo alla scala; quello “specificamente per il luogo”, come nella scultura di Richard Serra; quello, infine, in cui lui stesso si identifica, “determinato/condizionato” dal luogo. Nessun progetto a priori ma, previa indagine accurata sulla struttura, le condizioni climatiche, la vegetazione e la popolazione, esiti finalizzati alla possibilità “di vedere oggi un po’ più di quello che si vedeva ieri”. L’attenzione ai fenomeni percettivi che guidano l’intervento nello spazio architettonico si trasferiscono così coerentemente alla scala urbana. Alcuni esempi. Tilted Planes è nel cuore della Ohio State University, nella piazza ovale segnata da tracciati di linee che si intersecano. Facendo leva su quelle traiettorie, Irwin solleva porzioni triangolari di pavimento per farne luoghi di seduta e d’incontro. 9 Spaces, 9 Trees a Seattle nel ’79 elegge invece la Public Safety Building Plaza, una piazza movimentata, circondata da edifici anonimi. Ognuna delle nove maglie di una scacchiera reca al centro un pruno ed è recintata da una rete dello stesso colore. Più noto è Two Running Violet V Forms dell’81 all’Università di San Diego in California: una rete viola a zig-zag è appesa ad alti eucalipti; ne filtra così la vista con un colore ripreso dai fiori circostanti. Per Maria Nordman, il lavoro nella città esiste solo se qualcuno si prende cura di attuarlo. Non è lecito parlare di installazione ma di situazione, occasione di relazione e d’esperienza, ovunque e con chiunque. “L’aria, la luce del sole, l’acqua, il dialogo tra la gente non possono essere fissati o installati. La città comincia dove sono presenti almeno tre persone. La città comincia in mezzo ai campi di grano. La città comincia con la struttura del paesaggio e la realtà degli abitanti nel modo in cui strutturano le loro discussioni”. A Chartres, nel ’90, costruisce tre forme, una rossa, una blu e una verde, utilizzabili come tavoli all’aperto; a Lione nell’87 colloca due sedie, una d’acciaio e l’altra di legno nero, accanto a una fontana e altrettante all’interno del Musée Saint Pierre. La luce, diretta o riflessa dagli specchi, rivela il lavoro esattamente alle 12.15, orario che compare nel titolo accanto al luogo e all’anno. A Basilea nell’84, invece, ciocchi di legno giacciono nel bosco in ordine sparso. Quattro di essi sono però composti a suggerire una possibile costruzione con l’antica tecnica del balloon frame. A Torino, nel ’90, infine, la mostra Dalla notte al giorno da una mano all’altra consiste di doppi cassetti poggiati su tavoli: spetta al fruitore la decisione di aprirli per svelare magnifici marmi locali alternati a grandi fogli, monocromi su una facciata, segnati da diagrammi e traiettorie che puntano il sole o ipotizzano la piantagione di alberi secolari come il Ginkgo Biloba o il Cupressus sempervirens, sull’altra. Luce, disegno e colore appartengono così indifferentemente alla natura e all’arte.
Quanto alla seconda ipotesi, l’occupazione, partiamo da quella temporanea e reversibile.
Nel 1986, il direttore del Museum van Hedendaagse Kunst di Gent, Jan Hoet, ha un’idea originale: mettere a disposizione per tre mesi cinquanta case per consentire ad altrettanti artisti di produrre qualcosa riconoscibile come “arte”. La novità è assoluta: per la prima volta l’arte ha accesso nella vita quotidiana, non in musei, dunque, né in gallerie né in spazi anomali, industriali o storici, ma neppure nelle dimore di addetti ai lavori. Neppure in parchi o piazze auliche, ma in abitazioni comuni di gente comune, centrali e periferiche. Lo spazio, disponibile grazie a un gesto di generosità, non è vuoto, ma vissuto e fortemente caratterizzato, dall’arredo, dal gusto e dal comportamento dei padroni di casa, dal traffico e dai rumori provenienti dall’esterno. Non solo. Qualifica l’iniziativa il fatto che a promuoverla sia un museo che, frastagliandosi nella città e coniugandosi con il privato, è consapevole dei propri limiti. “La mostra pone la dinamica di una casa abitata a confronto con la neutralità fuori dal tempo del museo… Grazie alla chiarezza del suo codice il museo risulta riposante e tranquillizzante. Sappiamo dove possiamo aspettarci d’incontrare l’arte e dove no. Esiste una cesura tra quanto succede all’interno del museo e al suo esterno: all’interno il museo si è staccato da qualsiasi caratteristica storica, all’esterno infuria la vita, si fa la storia. Beauburg ha indicato quella soglia con estrema durezza: l’architettura si è rivolta tutta all’esterno, all’interno predomina una neutralità assoluta: pannelli mobili, sostituibili- il grado zero sul piano dello stile”. Alcune proposte.
Mario Merz unifica tre stanze della “sua” casa con un tavolo di vetro e pietra, il cui profilo serpeggiante contraddice la stereometria degli ambienti: “Tavola che diventa scultura e poi scultura che ritorna tavola, come senza arte si è artisti e con arte si è cittadini”. Traendo spunto dal chiasso proveniente dall’ asilo d’infanzia adiacente, Dan Graham progetta, al centro del giardino che collega il fronte e il retro della casa di un architetto, Children’s Pavilion: due cubi sfalsati e compenetrati la cui altezza consente l’accesso solo ai bambini. Nel retro della stessa casa, arredata con mobili di Carlo e Tobia Scarpa, interviene Carla Accardi: asseconda l’austerità minimalista con opere di sicofoil tempestate di segni grigi: un quadro strutturato da quattro ovali; quattro pannelli incernierati a costruire “una finestra su Gent”, un cono poggiato sul tavolo. Gilberto Zorio occupa due stanze della casa di Gerardo e Anna con una canoa, un relitto carico di alambicchi e crogiuoli. “Sospesa nel tempo che la sorregge”, attraversa lo spazio senza ingombrarlo. Maria Nordman sceglie invece due stanze all’interno di un edificio pubblico del centro storico. La porta è aperta a tutti, il luogo non è segnalato per consentire alla gente di passaggio di accedervi senza preconcetti. Lungo le pareti della prima stanza dispone otto pannelli girevoli, di specchio, neri e colorati. Rende invece abitabile quella a fianco con un tavolo ottagonale intorno a cui riunirsi e mangiare, e con un letto.
“Quando mi proposi di lavorare nella casa del neonato c’era sottintesa un’idea genealogica dello spazio e del senso delle cose. Dopo Cernobyl tutto ciò risulta comico. La mutazione genetica azzera ogni volontà umanistica. Gli Dei daccapo nascondono la ragione nella follia. Ancora una volta adotto lo scarabocchio di Lawrence Sterne come diagramma della vita”, spiega Luciano Fabro a proposito di C’est las vie. Una lunga tela bianca è ritagliata secondo quel grafico e affidata a una bambina per giocarci. Più lunga della stanza, non può mostrarsi per esteso. Joseph Kosuth tappezza completamente le pareti dello studio di uno psicoanalista con un paragrafo tratto dalla “Psicopatologia della vita quotidiana” di Freud: cancellato da forti righe nere, il testo è al limite della leggibilità. Il titolo ZERO & NOT” esplicita la convivenza di un polo positivo, la scrittura, e di uno negativo, la sua cancellazione. L’obiettivo è la produzione di significato attraverso l’estirpazione di quello codificato. La Camera degli ospiti di Giulio Paolini è altamente disorientante: divano e poltrona, ricoperti da un drappo bianco, sono inutilizzabili; una tela bianca poggiata sul cavalletto che li fronteggia non rivela alcuna immagine mentre nello scaffale retrostante i libri recano sul dorso bianco la traccia esile del cavalletto. Forse un’eco de Las Meninas di Velazquez? Se Ettore Spalletti e Remo Salvadori portano con il colore oro e terra di Siena disteso sulle pareti lo splendore italiano in una dimora fiamminga, il wall drawing di Sol LeWitt è una grande piramide dipinta a spicchi di varie tonalità di grigio. Il lavoro di Kounellis, infine, consiste nel modificare il rapporto della casa con l’esterno: occlude infatti le due finestre con lastre di piombo al cui centro una piccola incisione consente alla luce di filtrare. Una sola porzione, dai vetri gialli, è luminosissima. L’accoglienza di “Chambres d’amis” presso gli artisti e il pubblico è entusiasta: anziché trascinarsi stancamente da una sala all’altra del museo bombardati da opere eterogenee, gli spettatori scelgono di volta in volta cosa vedere, con il tempo e il raccoglimento necessari.
Il successo ne genera subito un secondo, l’anno successivo. Klaus Bussmann e Kaspar Konig propongono infatti una mostra di scultura che occupa l’intera città di Munster. Sessantaquattro gli artisti, alcuni dei quali già incontrati a Gent. LeWitt, ad esempio, erige nella Schlossplatz antistante il Castello Black Form (Dedicated to the Missing Jews), un austero parallelepipedo nero dedicato agli ebrei scomparsi e ai tanti mai nati. L’assiomaticità e l’assenza di retorica sono a tal punto provocatorie che l’opera è rimossa per essere ricostruita ad Amburgo due anni dopo. Buren alza in pieno centro quattro portali, due tratteggiati da righe, gli altri tappezzati di foto. Nell’immenso Shlossgarten convivono, invece, a debita distanza: Demetra di Fabro, due massi di pietra separati da un morsetto di ferro; White Pyramid di LeWitt, una grande piramide bianca gradonata; il padiglione ottagonale di Graham, che aggiorna nei materiali quello della musica lì eretto nel ’29; le cinque panchine di pietra di Jenny Holzer dove sono incise le sue sentenze lapidarie; il triangolo, il quadrato e il cerchio di Francois Morellet, tratteggiati con blocchetti di pietra affondati nel terreno. Ancora, se Trunk di Richard Serra consiste di due altissime lastre curve affacciate di diversa pendenza, che competono con il profilo movimentato della facciata barocca dell’Erbdrostenhof, Pozzo di Munster di Giuseppe Penone è un ramo di bronzo orizzontale irrorato dall’acqua proveniente da un pozzo sottostante. E si potrebbe continuare, con Carl Andre che costruisce un pavimento dissestato dove 207 lastre di ferro assecondano l’andamento di una collina, con Oldenburg, Spalletti, Judd, Haring e tanti altri.
“Chambres d’amis” e “Skulptur Projekte” costituiscono eventi irripetibili: il primo perché a tutt’oggi inedito, il secondo, agli antipodi, per la messe eccessiva di proseliti. Le mostre disseminate nelle città o sul territorio sono ormai una moda: “Over the Edges” a Gent, la mostra del ’92 disseminata nei dintorni di Stoccarda, e, in Italia, ” Arte all’Arte”, “Dopopaesaggio”, “Verso sud” e tantissime altre, nonostante la qualità degli artisti e la bellezza dei luoghi, non funzionano. Perché? In primo luogo l’idea non è più una novità; la distanza tra le opere, poi, spesso in paesini sperduti e sconosciuti, comporta una estenuante caccia al tesoro. Infine, l’assenza di un filo conduttore tra le opere dà luogo più a un sommatoria di personali che a un progetto unitario. Ma, più di questo, forse, dopo tanto vagare, l’opera ha bisogno di un suo luogo, per essere fruita senza distrazioni. Forse proprio del museo che, nel frattempo, approfittando della sua assenza, ha pensato bene di occuparsi d’altro. Come dire che ciò che nell’86, difronte all’attacco mosso dai fautori del ritorno all’ordine del quadro, costituiva un atto eretico rischia di ridursi oggi, in assenza di moventi, a stanca ripetizione. Basti l’esempio di “Over the Edges”, curata proprio da Jan Hoet a Gent nel 2000. Il presupposto è lo stesso che guidava, ben quattordici anni prima, “Chambres d’amis”: il superamento cioé dei confini del museo. Ma il luogo ospitante non è più la casa ma la città o, meglio, i suoi angoli, tema affascinante e cruciale per l’arte e per l’architettura: lì si sosta prima di procedere o di cambiare direzione, lì si moltiplicano le prospettive visuali. Ma, a giochi fatti, il bilancio è decisamente sfavorevole all’arte, ridotta spesso a trovate, più o meno intelligenti, più o meno divertenti, certamente accattivanti. Come commenta Luk Lambrecht, “quasi tutte le opere si esauriscono in esercizi improvvisati, come se le installazioni si limitassero a dare forma a idee effimere e trucchetti”.
Il caso di Gibellina, comune terremotato del Belice, è unico. Grazie al mecenatismo del sindaco, Ludovico Corrao, artisti e scultori vi accorrono da tutta Italia per contribuire alla sua rinascita culturale e spirituale. Gibellina diviene il simbolo della possibilità di reagire alle calamità naturali, alla paralisi burocratica e mafiosa. Alberto Burri propone di ricoprire il cumulo di macerie del vecchio insediamento con un grande cretto bianco le cui crepe gigantesche riprendono i percorsi del vecchio tessuto urbano. L’opera, giudicata dai più uno straordinario intervento di Land Art, non convince, né sul piano etico né su quello estetico. Se l’intento è di preservare la memoria, perché seppellire quelle macerie sotto una coltre di cemento? Percorrere quei sentieri freddi e deserti ha un che, di spettrale, ben lontano dall’animazione del centro antico. Ancora, nel passaggio dal quadro all’ambiente, il cretto si dilata solo dimensionalmente, senza acquisire una nuova identità poetica. Se passiamo poi alla nuova Gibellina, l’idea è di vincere l’anonimato del piano regolatore dell’ISES con opere artistiche e architettoniche. C’è la chiesa di Ludovico Quaroni, l’abominevole piazza faraonica di Franco Purini, il monumentale percorso cieco di Venezia, il Meeting di Pietro Consagra; ci sono Pomodoro, Cascella, Melotti, Accardi e tantissimi altri. Al di là del valore specifico – alcune sarebbero decisamente da abbattere – le opere restano episodiche, isolate e smarrite. L’idea che, in assenza di un piano, senza la concertazione con architetti, urbanisti e popolazione, gli artisti possano dare un nuovo volto alla città, è illusoria e fallimentare; così, un’occasione unica e irripetibile è andata sprecata. Ha perfettamente ragione Achille Perilli quando parla
di “sovrapposizione di oggetti che non sono riusciti a dare nel loro insieme un’immagine di una nuova cultura”, di un “collage di esperienze senza collante”.

dal monumento al luogo

A differenza dei casi precedenti, il monumento non ricerca o presuppone l’integrazione con il tessuto urbano ma vi si sovrappone con piglio autorevole e dimensionalmente autoritario. Questo vale per quelli retorici e celebrativi, ma anche per quelli astratti, moderni, si tratti di capolavori, come il Monumento a Rosa Luxembourg di Mies van der Rohe del ’26 a Berlino e di quello dei BBPR nel cimitero monumentale di Milano nel ’46, o di innesti spuri, come le 4 steli di Pietro Consagra a largo S. Susanna a Roma. Anche per quelli pop, come i notissimi cui Claes Oldenburg si dedica dal ’65. “Monumento è un termine ironico. L’ho usato in due modi: in quello ironico, come anti-monumento, e per ragioni di scala, perché quando si dice monumento si pensa a qualcosa di grande”, spiega. In effetti, i suoi “monumenti colossali” rifuggono il riferimento naturalistico e antropomorfico per inneggiare all’oggetto di consumo o, più di recente, alla moda, come nel gigantesco ago e filo prospiciente l’inguardabile stazione Cadorna progettata da Gae Aulenti a Milano. Ma, nell’84, Oldenburg inizia la fertile collaborazione con Frank Gehry. Uno scambio alla pari: se Oldenburg “spazializza” i suoi monumenti rendendoli organismi architettonici, come in Binocular Building del ’91 a Venice in California, Gehry rifugge vincoli funzionali e razionali per ipotesi estrose e divertenti, come la Fish House dell’86, per agglomerati liberi e polimaterici, come nella casa a S. Monica, per involucri scolpiti, come negli splendidi esemplari museali.
Monumento-architettura, dunque, ma anche monumento-luogo, come nel caso unico e straordinario del Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma, sintesi di natura, scultura e architettura. Le cave di pozzolana dove nel ’44 i nazisti compiono il barbaro eccidio; il sacrario, un masso stereometrico che copre, librato su una lama di luce, i 335 sepolcri tutti uguali, tutti ossessivamente allineati; la scultura di Coccia, attigua all’ingresso, i cui tre personaggi dolenti volgono lo sguardo in altrettante direzioni, non sono episodi isolati ma stazioni di un circuito continuo che ruota attorno al piazzale e trova il suo perno nella scultura di Coccia. Dall’ingresso, infatti, qualificato dalla disperata e possente cancellata di Mirko, ci si immette nel piazzale, che suggerisce tre percorsi possibili: dalle cave al sacrario all’uscita costeggiando la scultura di Coccia; oppure dal sacrario alle cave all’uscita fronteggiando la scultura; oppure toccando gli stessi episodi dopo averli però scrutati dall’alto attraverso un percorso che conduce al Museo e ai crateri creati dalle bombe fatte esplodere dai nazisti per occultare il misfatto. Non solo il Mausoleo delle Fosse Ardeatine è il primo monumento moderno italiano, frutto del primo concorso dell’Italia democratica, ma, anziché descrivere, sublimare o rimuovere la storia che lo giustifica, la coinvolge, esalta e distingue attribuendo a ogni episodio la sua specificità linguistica: alle cave e al piazzale il disegno naturale e organico, al masso la purezza geometrica, alla scultura di Coccia l’evocazione dolorosa, alle cancellate di Mirko la straziante lacerazione espressionista.
Se le Fosse Ardeatine costituiscono l’esempio più alto di monumento corale, dove episodi naturali, architettonici e artistici si organizzano in percorso, il progetto di Peter Eisenman per il monumento all’Olocausto a Berlino compie un passo ulteriore: il dissolvimento dell’emergenza monumentale nel tessuto urbano. 2700 colonne di cemento, inclinate e di altezza variabile, disegnano una gigantesca griglia deformata e sbilenca. Nessun fulcro tematico o poetico, ma un modulo elementare che si moltiplica uguale a se stesso fino a generare un brano di città indifferenziato ed estensibile. In parte simile all’ossessiva sequenza dei sepolcri delle Ardeatine. Se la griglia è sinonimo di razionalità e controllo, la versione disorientata di Eisenman affida agli spettatori l’esperienza della catastrofe.

arte come anarchitettura

Perché concludere questa breve e frammentaria storia del rapporto tra l’arte e gli spazi o dell’arte che si fa spazio con la vicenda folgorante dell’anarchitettura di Gordon Matta-Clark? In primo luogo perché si tratta di un artista che, più di altri, è consapevole delle problematiche architettoniche: per averle ereditate dal padre, il pittore Sebastian Matta, e per averle esperite nel corso di studi alla Cornell University. Ciò gli consente di avere ben chiaro lo spartiacque tra le due discipline: come per Donald Judd e Sol LeWitt, esso coincide con il concetto di funzione. Se per LeWitt: “L’architettura si occupa di creare aree con una funzione specifica. Per non fallire nel suo scopo, l’architettura – che sia o meno un’opera d’arte – deve essere funzionale. L’arte non è funzionale”, così gli fa eco Matta-Clark: “la casa è una macchina per non abitare”, oppure: “io non lavoro sull’architettura, io lavoro sugli edifici”. Se la soluzione di Judd e LeWitt sono gli oggetti specifici e le strutture modulari, Matta-Clark si attesta invece sulla scala architettonica, ma per trasformare, attraverso una spettacolare azione decostruttiva che li priva di ogni funzionalità, edifici destinati alla demolizione in oggetti artistici. Se, ancora, LeWitt, a proposito del fondamento dei wall drawings, dichiara: “Sembra più naturale lavorare direttamente sul muro piuttosto che fare una costruzione, lavorarci sopra e poi collocarla al muro”, Matta-Clark così s’interroga: “Perché appendere le cose al muro quando il muro stesso è un mezzo così intrigante? La rigida mentalità secondo cui gli architetti costruiscono i muri e gli artisti li decorano offende il mio senso di entrambe le professioni”. Gli esiti sono antitetici: anziché dipingerli festosamente, Matta-Clark martoria gli edifici: tagliati, sventrati, affettati, essi perdono il loro status di organismi funzionali per trasformarsi in sculture, come Bronx Floors, trance di pavimenti estratti da edifici fatiscenti nel Bronx, nel Lower East Side, a Brooklyn, e in fotografie o loro mirabolanti combinazioni. I primi lavori, ubicati nei sotterranei di 112 Green Street, il più noto degli spazi alternativi di Soho, coniugano due operazioni contraddittorie: lo scavo, dunque la sottrazione, fino a rivelare le fondazioni, e la costruzione, con materiali di scarto o di riporto, di un muro di bottiglie o di rifiuti. Dal ’73 le due operazioni si fondono: l’opera coincide con la stessa operazione di sottrazione. In A W-Hole House, ad esempio, Matta-Clark asporta il centro del tetto ed effettua due tagli paralleli lungo le pareti di una warehouse genovese: mina così radicalmente l’organizzazione fondata sull’esistenza di spazi minimi, isolati e autosufficienti e, allo stesso tempo, contesta l’organizzazione sociale del lavoro, rompendo le barriere tra dirigenti e operai. Nel notissimo Splitting del ’74, invece, il taglio verticale operato su una casa suburbana sortisce lo stesso effetto, ma viola il mito della privacy legato a quella tipologia. Gli interventi successivi, da Conical Intersect, il canocchiale aperto nella casa parigina destinata a lasciar posto al Beaubourg, a Office Baroque ad Anversa, a Circus, l’unico lavoro su commissione, dove i tagli hanno per la prima volta un andamento curvo, offrono una straordinaria lezione di ricchezza e complessità spaziale. Spiega infatti Matta-Clark: “Ci sono alcuni lavori che possono essere scrutati da un solo punto di vista e ce ne sono altri, quelli che in ultima istanza mi interessano di più, che hanno una sorta di complessità interna che sconfigge l’idea di ‘istantanea’”. Oppure: “Dalla linea al piano a una molteplicità di piani, fino al volume o a qualcosa oltre il volume, una sorta di volume dimamico. E quel volume dinamico è quello che in ultima istanza mi interessa di più”. Ebbene, Circus invera proprio quei principi: dinamismo, pluralità di punti di vista, geometria animata, dialettica tra vuoto e pieno. In pianta e in sezione, infatti, il progetto mostra tre cerchi allineati lungo la diagonale dell’edificio: una geometria elementare, dunque, in una costruzione essenziale. Ma quando quel disegno si tridimensionalizza, la semplicità si tramuta in delirante complessità; il vuoto e il pieno si scambiano continuamente i ruoli, traducendo la dialettica “figure-ground” in quella “figure-figure”. Tornata a guidare la progettazione all’indomani della pagina nefasta dello storicismo post-moderno, tale dinamica spaziale rende estremamente attuale la lezione di Matta-Clark, soprattutto tra gli architetti. La questione, però, inquieta storici ed esegeti.
Come è possibile, questo il nocciolo della questione, che architetti impegnati con successo nella professione si proclamino seguaci di un’artista ribelle, nichilista, che odia l’architettura al punto di torturarla nell’attesa della sua demolizione, che dissacra a tal punto la professione da sparare contro le finestre dell’Institute for Architecture and Urban Studies di New York quando invitato da Peter Eisenman alla mostra Idea as a Model nel ’76? Ci soccorre il concetto di Kunstwollen introdotto da Alois Riegl a proposito della relatività di ogni poetica al suo contesto storico. Matta-Clark è certamente uno degli artisti più radicati nella sua epoca e nella sua generazione, caratterizzate da un insopprimibile impulso alla ribellione e alla contestazione, dei circuiti espositivi tradizionali, dell’oggetto artistico ben confezionato, del mercato ma, soprattutto, dell’ottimismo progressista che sottende l’ideologia e il linguaggio modernisti. Ma il Kunstwollen con cui leggiamo oggi il suo lavoro è decisamente distante da quello con cui lo stesso veniva scrutato negli anni Settanta. Se la missione dell’“anarchitetto” è intervenire in modo precario e provvisorio su edifici che la speculazione destina alla demolizione, condividendone il destino, la sottrazione di pareti e pavimenti, l’abbattimento delle cesure tra i piani e tra l’interno e l’esterno, la moltiplicazione e complicazione dei punti di vista e delle prospettive, il disvelamento delle fondazioni o della stratificazione muraria, costituiscono una grande lezione per quanti optano invece per la professione. L’anarchitettura non è solo un monito etico contro lo sfruttamento capitalistico, contro una concezione meramente utilitaristica dell’abitare: la sua straordinaria valenza estetica consiste proprio nell’additare- contro la progettazione a tavolino, contro involucri pensati a riga e squadra, l’architettura come azione, come metamorfosi continua dello spazio proprio e di quello che ci circonda.

adachiara zevi